venerdì 31 dicembre 2010

Lo Yoga della divinità - Divinità e teismo

Il buddha-dharma è un approccio non-teista e le divinità non vanno intese in senso antropomorfico o come aventi una realtà individuale, una realtà che ne faccia un'entità «altra» esistente in sé.
Nell'essenza, la divinità non è altro che la mente stessa del meditante, l'aspetto puro di essa. Quando l'ego del meditante non è più là, senza «io» né «altro», appare l'unione divina; la sua realizzazione è libera da ogni individualità e da ogni dualità.
È la pienezza: non c'è niente che sia altro.
Stiamo attenti a non incappare in un certo numero di scogli e di deviazioni che si manifestano spesso: è importante distinguere bene la pratica di una divinità da un approccio teista nel senso comune del termine.
L'approccio teista è, comunemente, in stretto rapporto con l'antropomorfismo del quale si possono distinguere diversi livelli: grossolano, sottile ed essenziale.
L'antropomorfismo grossolano è quello di Dio, il vecchio nel suo paradiso al di sopra delle nuvole. Non ne parliamo perché ciò che questa concezione ha di semplicistico e di materialista è evidentissimo.
L'antropomorfismo sottile è più pernicioso. Non si attribuisce più a Dio una forma umana ma una mentalità umana e perfetta. Pur non essendo ad immagine fisica dell'uomo, ne ha i sentimenti, agisce, prende iniziative, ha delle intenzioni.
Detta la sua legge, giudica, castiga, ricompensa, ama, apprezza, disapprova. Ha tutte le caratteristiche della mente umana, ma prive delle loro imperfezioni abituali.
L'antropomorfismo essenziale consiste nel trasporre la modalità cognitiva umana e dualista alla divinità e nel fame qualcuno, una persona che esiste. Si tratta in effetti di attribuire a Dio un'identità che lo fa essere altro. L'antropomorfismo essenziale è l'esperienza dualista di Dio. Se si pone questa dualità come irriducibile, si assolutizza il relativo, il relazionale dualista e si resta prigionieri in esso.
Queste puntualizzazioni ci permetteranno di evitare le derive nella pratica, ma stiamo attenti dal considerarle come delle critiche rivolte ad una particolare tradizione. Ogni tradizione ha diversi livelli di comprensione. Si tratta perciò di una messa in guardia di fronte a certe comprensioni e deviazioni che sono state chiamate: «stato di mente (d'animo) teista».
Queste deviazioni sono a volte credenze popolari, altre volte possono costituire la quasi totalità delle prospettive di una tradizione;
quali che siano esse si incontrano in diversi gradi in tutte le tradizioni e sono in effetti la riduzione della divinità ad una prospettiva dualista e la sua reificazione in quella che si può definire una forma di materialismo spirituale.
A livello essenziale, le tradizioni teiste e non teiste possono ricongiungersi in un'unione trascendente, ma questa è sempre al di là dell'antropomorfismo e del suo materialismo spirituale.
La divinità nel Yajrauàna non è mai Dio, «il completamente altro». La natura della divinità è vacuità e la vacuità non è qualcosa che esiste. In questo senso la divinità è Dio se accettate che Dio non esiste! Cosa che un teista ordinario non ammetterebbe mai. Tuttavia la vacuità non è un'inesistenza, la sua assenza di dualità è il luogo di una presenza. Questa presenza è la Chiara Luce, la natura della divinità.
È importante fare attenzione a non scivolare nelle deviazioni della «mentalità teista» che provocano grossi ostacoli sulla via; l'impronta culturale occidentale, sia religiosa che laica, predispone a ciò. Il rischio è tanto maggiore quanto più delle somiglianze superficiali possono facilmente evocare, «dall'esterno», assimilazioni frettolose ed ingannevoli.
È una delle ragioni per cui delle buone basi nella comprensione del dharma sono importanti per affrontare il Vajrayana.
In particolare, solo nozioni ed esperienze di base della vacuità permettono di evitare gli scogli antropomorfici e permettono il giusto approccio alla pienezza divina della vacuità.
Nell'approccio del dharma noi siamo fin dall'inizio portatori della natura di buddha, di tutte le sue qualità, della sua realizzazione. Essa non è qualcosa che ci deve essere data, è in noi nel più profondo di noi stessi.
Essa non è affatto da costruire ma solo da scoprire; è una natura alla quale bisogna risvegliarci.
Praticando una divinità, non vi rivolgete ad un altro ma alla vostra natura risvegliata.
Essendo questa natura esterna al nostro ego, è giusto, dal suo punto di vista che è il nostro all'inizio, rappresentarcela come distinta da noi stessi. Eppure questa esteriorità è fittizia e sarà infine superata nel non-ego privo di dualità.
Secondo il dharma, l'aldilà esiste solo in rapporto all'aldiquà ed è capendo l'irrealtà dell'ego di qua che si afferra quella dell'aldilà, dell'Altro trascendente. In altri termini, Dio non esiste che in relazione all'ego che ne è il testimone e che lo pone come «Altro». Ma l'ego non esiste fondamentalmente e nemmeno Dio «Altro» esiste fondamentalmente.
L'aldilà divino non esiste che in rapporto all'aldiquà egoista.
Dal punto di vista del dharma, il livello relazionale è sempre relativo!
L'ultimo è l'assoluto non dualista e, perciò stesso, necessariamente non relazionale.
Si parla tuttavia di divinità nel Vajrauàna, ma essa è, nella sua natura profonda, la pienezza della vacuità aldilà di ogni nozione di «me» o di «altro», aldilà delle nozioni di «io» e di «voi».
Essa è sempre la «divinità di conoscenza primordiale»,ovvero quella che si pone al livello non dualista.

Lo Yoga della divinità - La natura della divinità

Peculiare al Vajrayana è lo sviluppo di una relazione personale con una divinità.
Nell'economia delle energie spirituali questa relazione è molto più dinamica ed efficace di una relazione impersonale.
La divinità è l'aspetto puro della mente: ciò che c'è di divino nel più profondo dell'animo di ciascuno di noi. Essa non è altro che la natura ultima della mente considerata nella sua pienezza
piuttosto che nel suo aspetto di vacuità. Il vuoto di illusioni ha per corollario la pienezza delle qualità risvegliate: è un «vuoto pieno» od una «pienezza di vacuità».
Nei Tantra questa pienezza riceve il nome di Chiara Luce della mente. L'essenza della divinità è questa Chiara Luce, la pienezza della mente pura liberata dai veli e dalle illusioni contingenti, essendo il suo aspetto manifestato attraverso la rappresentazione simbolica, all'inizio il solo accessibile alla nostra abituale mente concettuale.

giovedì 30 dicembre 2010

Lo Yoga della divinità - La divina approssimazione

Quando riceviamo un’iniziazione, il maestro-vajra ci dà una divinità (yi-dam) da visualizzare in accordo col nostro temperamento (intellettuale, passionale, ecc.). Ora, la “divina approssimazione” o “approccio preliminare”  è il periodo iniziale del devayoga, in quanto ci si familiarizza con quella determinata divinità avvicinandosi sempre più alla sua condizione.
Prima di meditare su un corpo divino, occorre stabilire attraverso il ragionamento la propria esistenza non-intrinseca ; poi questa stessa mente che ha come oggetto la propria Vacuità, si manifesta sotto forma di volto, di membra, ecc. della divinità (ad es., Vairocana). Questi due elementi (la saggezza che riconosce l’esistenza nonintrinseca e l’idea della divinità) sono un’unica entità : la mente che constata la Vacuità sotto forma di divinità ha come suo oggetto referente la Vacuità e come suo oggetto apparente e convenzionale un corpo divino. Con l’esercizio, gradualmente ci si abitua a questa manifestazione di una divinità priva di esistenza reale, simile ad un’illusione. La forma divina, come pure i suoni, ecc. si manifesteranno ancora, ma la nostra mente constaterà o coglierà esclusivamente la Vacuità.
Avvicinandosi sempre più alla condizione della divinità del devayoga, la divinità stessa elargisce allo yogi le siddhi - o direttamente o conferendo alla mente del praticante una determinata capacità.
Dopo il completamento dell’ “approssimazione divina” avviene la vera e propria acquisizione delle siddhi mediante il compimento delle pratiche prescritte (ripetizione di mantra, ecc.). Infine, tali siddhi vengono impiegate dal praticante per il bene altrui, cosicchè si ha un’ancor più grande accumulazione di meriti (che ci faranno raggiungere la buddhità più rapidamente che non col Veicolo
dei Sutra).


mercoledì 29 dicembre 2010

Lo Yoga della divinità - Introduzione

Lo “yoga della divinità” o “yoga di essenza divina” è la pratica fondamentale ed essenziale delle 4 classi del tantra : in tutti i tantra infatti è previsto il devayoga per la rapida accumulazione di meriti e saggezza discriminante. A partire da una buona comprensione della Vacuità e di bodhicitta, il praticante visualizza se stesso come una particolare divinità e vi si identifica, cancellando l’immagine di sè come essere ordinario e limitato. La pratica di questo yoga ha lo scopo specifico di ottenere il sambhogakaya di un buddha.
In questo yoga dunque, lo yogi medita su se stesso come se avesse un aspetto simile ad un corpo divino e al tempo stesso la sua mente riconosce la Vacuità : la coscienza della saggezza che comprende la Vacuità e si fonde con essa, appare in forma di divinità. In questa pratica, un singolo momento di coscienza conosce la forma di una divinità mentre contemporaneamente è consapevole della
sua natura di Vacuità : qui dunque meditazione sulla divinità e conoscenza della Vacuità coesistono in forma completa all’interno di un singolo momento cognitivo, cioè vi è la loro piena fusione all’interno di una singola entità di coscienza (che non è la semplice congiunzione di due distinti fattori che si completano l’un l’altro).
Sia il Paramitayana che il Vajrayana hanno un Sentiero per conseguire - con la meditazione sulla Vacuità - un Dharmakaya, ma solo il Vajrayana possiede un metodo speciale per ottenere un Rupakaya : questo metodo è il devayoga.
La saggezza che riconosce la Vacuità è la causa specifica del Dharmakaya e una causa concomitante del Rupakaya ; viceversa, il devayoga è la causa specifica del Rupakaya ma anche la causa concomitante del Dharmakaya.
Normalmente siamo insoddisfatti perchè abbiamo una visione ristretta, limitata e limitante della realtà e, in particolare, di ciò che siamo e di ciò che possiamo diventare : siamo intrappolati nell’insoddisfazione perché l’immagine che abbiamo di noi stessi è opprimente, inferiore e negativa. Il nostro potenziale umano, le nostre risorse interiori, vanno invece considerate in modo trascendentalmente bello, puro, forte, abile e vitale, cioè ci dobbiamo vedere come dèi e come dee. Per far ciò ci dobbiamo addestrare nello “yoga della divinità” : più ci abituiamo a dissolvere nello spazio vuoto le concezioni ordinarie che abbiamo di noi stessi e a visualizzarci nell’aspetto del glorioso corpo di luce del nostro yi-dam, e meno limitati ci sentiremo dalle frustrazioni e delusioni della normale e banale vita quotidiana. Se ci identifichiamo come dèi (ad es., Mañjusri) stimoleremo la nostra mente a risvegliare e sviluppare quelle qualità che essi rappresentano (ad es., la saggezza) e che sono latenti in noi (dato che abbiamo dentro di noi la “natura di buddha”) e
saremo in grado di aprirci alle forze positive esistenti dentro e fuori di noi. Le nostre ordinarie apparenze (ciò che vediamo, ascoltiamo, gustiamo, ecc.) verranno trasformate nel godimento pieno di beatitudine della divinità.
Dunque, il tantra è l’antidoto che cura l’immagine molto limitata che abbiamo di noi stessi, fondata sull’auto-commiserazione. Essa è il principale ostacolo alla crescita di amore e saggezza. La cura consiste in una catarsi generata da un processo di alchimia psichica : ci emaniamo visualizzandoci come una divinità (yi-dam), riconoscendo le nostre qualità positive. E’ questo lo “yoga della divinità”, in cui contempliamo l’orgoglio divino abbinato alla consapevolezza della Vacuità.
Il metodo del tantra è di eliminare gli stati mentali grossolani, superficiali, illusi e dualistici facendo in modo che si manifesti la mente (o coscienza) sottile, originaria e fondamentale (che risiede ed opera nell’inconscio) mediante tecniche come il gtum-mo o la meditazione sugli stadi di assorbimento del processo della morte. Al momento, questa mente sottile - che è fonte di chiarezza e di pace - è fuori uso, è come addormentata ; ma con quelle tecniche essa verrà attivata nell’avadhuti, cioè diverrà operativa.
L’identificazione del meditante col dio comporta la sua disidentificazione dagli aspetti parziali e dualistici del proprio essere. Percependo il proprio io come se fosse già quintessenziato dalla bellezza e dalla forza della divinità - anticipando perciò l’effetto alla causa - si giunge alla maturazione dello “Stadio di Generazione”.
In questo stadio il praticante prende progressiva famigliarità con la sua vita interiore, astenendosi però ancora dall’intervenire sul proprio “corpo sottile” - la cui trasmutazione darà per risultato (nello “Stadio di Perfezionamento”) la trasformazione della persona nella divinità.


lunedì 27 dicembre 2010

Om Mani Padme Hum - Cenresi Mantra

Per un attimo di meditazione:

The Six Syllable Mantra


mercoledì 22 dicembre 2010

Dedica

Guéwèi tsonam sagpa kunn
Dagui yongsou zoungmé par
Sèmtchèn malu kunnteun tou
Tcheuying lana mépar ngo


La Voie du Bouddha - Kalou Rinpoché

Préface de Sa Sainteté le Dalai-Lama
La Voie du Bouddha constitue à la fois une introduction générale au cheminement spirituel et un excellent manuel à l'usage des étudiants et des pratiquants du bouddhisme.
C'est un ouvrage de référence donnant une vue globale de la tradition yogique du bouddhisme tibétain et de sa pratique.
L'ouverture, la profondeur et la clarté des enseignements qu'il contient sont une source d'inspiration unique pour tous ceux qui sont à la recherche d'une spiritualité complète et vivante pouvant ètre pratiquée aujourd'hui.
Kyabjé Kalou Rinpoché
L'un des plus grands yogis tibétains et maitres contemporains.
Son rayonnement spirituel fut une source d'inspiration pour toutes les traditions.
Pendant la vingtaine d'années durant laquelle il enseigna en Occident, il manifesta au plus haut niveau la sagesse universelle et la compassion, qui sont l'essence des enseignements du Bouddha.
Denys Rinpoché
L'un des principaux héritiers spirituels de Kyabjé Kalou Rinpoché.
Il a dirigé la réalisation de cette anthologie et transmet depuis trente ans
son contenu, la voie de l'éveil.


Comprendere nell'esperienza - Lama Denys Rinpoce

Si tratta dunque di partire da dove siamo. Ciò è estremamente importante,perché molti approcci e pratiche del Dharma costruiscono delle sovrastrutture che non hanno molto a che vedere con ciò che si è, là dove si è.
Si vedono spesso praticanti abbandonarsi ad ogni sorta di considerazioni, di idee, mentre il rapporto tra tutto questo e l’istante, il loro vissuto presente, non sono evidenti. Il Dharma, allora, diventa una specie di imbellettamento: qualcosa di artificiale e superficiale; l’insegnamento non viene veramente vissuto, non entra nel cuore e non viene integrato.
È verso quest’integrazione che cerchiamo di andare progressivamente, considerandoci dei principianti. Io so che alcuni di voi hanno dieci anni o più di pratica del Dharma, ma poiché la mente-cuore fondamentale è quella del principiante, accettiamo di esserlo.
Il principio che prenderemo come filo conduttore è quello di congiungere comprensione ed esperienza. È per questo che il titolo scelto è «Comprendere nell’esperienza». Utilizzeremo inevitabilmente parole e concetti, cercando tuttavia di far corrispondere le nozioni introdotte ad un vissuto, perché ci sia ogni volta un legame tra una nozione, un concetto e l’esperienza.
Quando si usa una parola bisogna dunque che questa non sia soltanto un suono ma abbia per noi una tonalità, una sostanza vissuta. Allorché ad esempio parleremo di «apertura», saremo portati in vari modi a collegare la comprensione di questa parola ad un’esperienza, vale a dire a vivere il significato di ciò che è «aperto».
Per unire così comprensione ed esperienza, faremo certamente meditazione seduta, faremo śamatha-vipaśyana, ma utilizzeremo anche taluni particolari esercizi. Faremo ricorso ad esercizi derivati tanto dall’ambito tibetano che da quello occidentale.


Praticare la pace in tempo di guerra - Pema Chodron

Da sempre l'uomo desidera vivere in pace; eppure, paradossalmente, lo strumento attraverso cui cerca la pace e la felicità è la guerra. E questo è vero a livello quotidiano e familiare, nei rapporti tra comunità di diversa ampiezza e tra Stati. Ma sia la pace che la guerra hanno origine nello stesso luogo, nel cuore dell'uomo: è questo il fulcro del messaggio di Pema Chodron che in questo libro esplora le origini dell'odio, dell'aggressività, dei conflitti secondo l'insegnamento buddhista. E il modo in cui noi come individui reagiamo allo stress della vita quotidiana che può perpetuare una cultura di violenza, o viceversa creare una nuova cultura della compassione. Per questo imparare la meditazione e praticarla con costanza può aiutarci a diventare persone più consapevoli e compassionevoli, aprendo, nel nostro piccolo, le porte a un mondo di pace.


lunedì 13 dicembre 2010

Il mito della libertà e la Via della Meditazione - Chogyam Trungpa

La libertà è concepita in genere come la capacità di realizzare i propri scopi e soddisfare i propri desideri. Ma qual è la fonte di questi scopi e desideri? Se nascono dall'ignoranza, dai modelli abitudinari e dalle emozioni negative - in altre parole, da elementi psicologicamente distruttivi che in realtà ci tengono schiavi -la libertà di ricercarli è allora vera libertà non è forse soltanto un mito?
Nei capitoli di questo libro, basato sulle conversazioni tenute da Chògyam Trungpa, l'idea della libertà è inserita nel profondo contesto del Buddhismo tibetano. Scavalcando il divario fra la tradizione esoterica orientale e le realtà quotidiane della vita occidentale, l'undicesima incarnazione del Trungpa Tulku ci insegna che i nostri atteggiamenti, i nostri preconcetti, e persino le nostre stesse pratiche spirituali possono trasformarsi in catene che ci avvincono a modelli ripetitivi di frustrazione e disperazione. Trungpa spiega inoltre il ruolo significativo svolto dalla meditazione nel mettere a fuoco le cause della frustrazione e nel far sì che queste forze distruttive divengano degli aiuti nel progresso verso la vera libertà.
L'abilità unica di Trungpa nell' esprimere l'essenza degli insegnamenti nel linguaggio e nelle immagini della cultura occidentale contemporanea fa di questo libro una delle fonti più dirette per attingere al significato immediato della dottrina buddhista. C'è in questo approccio un amalgama di piacevole umorismo e di profondissima serietà, che implica una visione della vita nella sua completezza e senza la macchia di idee preconcette.
Il libro quindi ci esorta e ci sfida a dare una nuova valutazione del nostro concetto di libertà, a riesaminare i nostri pensieri e le nostre attività e ad avviarci lungo un sentiero che conduce alla liberazione perfino dalla nozione stessa di libertà come è comunemente intesa.

venerdì 10 dicembre 2010

Sei sicuro di non essere buddhista? - Khyentse Norbu

Una coerente scelta buddhista è possibile. Anche dentro la quotidianità occidentale. È così possibile, ci fa intendere l’autore, che ci si può scoprire buddhisti prima di fare (o senza fare) esplicita professione di fede.

Un piccolo trattato che cerca di spiegare le ragioni e i fondamenti del buddhismo. Il Maestro parte dai cosiddetti quattro sigilli (tutti i fenomeni compositi sono impermanenti, tutte le emozioni sono dolore, tutte le cose sono prive di esistenza intrinseca e l'illuminaziuone -il nirvana- trascende ogni concetto), e invita a riflettere sul fatto che non è necessaria né sufficiente una tunica arancione e un'ossessione repulsiva nei confronti della carne per essere buddhisti.
Primo libro di un lama appartenente a una gloriosa famiglia del Bhutan e che oltre a insegnare buddhismo è anche un appassionato viaggiatore e regista di una certa fama, questo volume tirerà fuori la parte buddista che è in voi, se c'è.
Facendo riferimenti al Viagra o a ad Eminem e ricordandoci che anche Hitler era vegetariano, tra aneddoti, appunti di viaggio e riferimenti a vari elementi della nostra cultura, Khyentse Norbu fornisce le prime basi per aiutare chi legge ad avvicinarsi all'unica religione che ha l'onore di essere sempre stata lontana dal degrado del fondamentalismo e della violenza.
Khyentse Norbu sostiene che non serve una tunica arancio e né quel certo un sorriso radioso per scoprirsi vicini al pensiero buddista. Così, con una serie di esempi pratici e una buona dose di ironia e di leggerezza, l'autore presenta il buddismo da un punto di vista sociale, di costume, senza addentrarsi nei meandri più profondi delle sue regole e della sua filosofia, senza neppure accennare alla meditazione, alle pratiche, alle dissertazioni sulla reincarnazione.
Lo scopo, perfettamente riuscito, è quello di dare un assaggio sufficiente a far comprendere al lettore occidentale se ci sono i cosiddetti prerequisiti per approfondire la religione buddista.
L'autore ha devoluto i proventi del libro ad un'associazione no profit che sostiene la pratica e lo studio "della concezione del Buddha, della saggezza e della compassione".
Un libro consigliato a tutti.



giovedì 9 dicembre 2010

Il ruggito del leone - Chogyam Trungpa

I due seminari che formano il materiale di questo volume vennero tenuti negli anni '70, quando il venerabile Chògyam Trungpa introdusse per la prima volta gli insegnamenti tantrici ai suoi studenti occidentali. Il loro titolo "I nove yàna", o nove veicoli, indica come Trungpa abbia voluto delineare un quadro completo del viaggio spirituale, trasmettendo la totalità degli insegnamenti e delle istruzioni pratiche che consentono allo studente di progredire spiritualmente sul sentiero buddhista. La proclamazione della verità è impavida, dice il buddhismo tantrico tibetano, e come un possente Icone del Dharma Trungpa, pur mantenendo inalterata l'essenza della tradizione, non si barrica dietro fredde esposizioni dottrinali, ma parla muovendo da una comprensione intuitiva delle cose. Le sue parole, fresche e immediate, hanno il sapore dell'esperienza personale e la forza dirompente della verità. Nei suoi discorsi è come se il tantra uscisse dai manuali dotti e dalle buie vetrine dei musei per sconvolgere con l'impatto della pazza saggezza il perbenismo e il cieco autocompiacimento del 'bravo' meditante.
Il ruggito del leone è la proclamazione impavida che tutto ciò che sorge nella mente samsarica, incluso il caos delle emozioni negative, non è un ostacolo alla calma meditativa ma un'occasione unica per imparare, una situazione ricca di una enorme energia capace di accelerare il cammino verso l'illuminazione.


Il libro tibetano dei morti - Detlef-I. Lauf

Dottrine segrete e mondi trascendenti.

Questo non è un libro per animi pavidi. Chi lo ha letto e forse si è smarrito in esso si ritrova cambiato, o comunque scosso. E` stato esposto alle possenti onde della coscienza ed è stato profondamente agitato da esse. La stabilità del suo Io vacilla e la linea di demarcazione fra soggetto ed oggetto si cancella.
     L'abissale profondità del pensiero tibetano ha già turbato l'ultima generazione in Occidente; l'hanno turbata in particolare le strane visioni di A. David-Neel e la traduzione di W. Y. Evans Wentz di buona parte dei libri tibetani dei morti, molti dei quali incontreremo in questo volume. Poiché nessuno era in grado di controllarle, molte delle cosiddette ricerche tibetane erano ormai diventate un biglietto gratuito per le proiezioni della propria fantasia.
     L'importanza di questo libro è dovuta soprattutto al fatto che esso è un lavoro serio ed approfondito sotto il profilo scientifico (profondità che manca spesso ai rappresentati del mondo accademico); e risulta inoltre più coinvolgente delle considerazioni pseudo-occultistiche e talora fantasiose che spesso vengono spacciate sotto il nome di "Tibet".
     Al contrario di molti trattati popolari benché opinabili dal punto di vista scientifico (vedi "Shangri-La"), questo libro non sembra interessante, originale o esotico al primo impatto. Tuttavia, mano a mano che lo si legge, si ha sempre più l'impressione di venir introdotti a una visione della realtà che ci informa non solo sul Tibet ma anche su noi stessi, su aspetti sconosciuti del nostro Io, che ad un tratto non ci appare più tanto solido e sicuro.
     Questo libro ci insegna soprattutto che quella che abitualmente noi chiamiamo "realtà"  non è che una delle tante possibili realtà e non certo la più importante. Ognuno di noi possiede infatti il proprio mandala.
     Non è difficile trarre profitto da quest'opera, nonostante che il testo dei libri dei morti risulti astruso, perché Lauf, grazie alle sue enormi conoscenze e alle sue profonde meditazioni, ha fatto per noi gran parte del lavoro. Ecco un esempio di come un mondo tanto lontano dal nostro può venir aperto al punto da permetterci di capire valori del tutto nuovi.
     Data la ricchezza contenutistica del materiale, Lauf evita di condurre il lettore non-iniziato attraverso l'intricato labirinto dei dettagli. E` un vero sollievo constatare che l'occhio dell'autore è sempre diretto all'essenziale.
     Il prefattore, che ha pure discusso questi temi non moltissimi tibetologici, non ha mai incontrato un approccio ai testi tibetani altrettanto essenzializzato ed altrettanta capacità di coglierne il significato rapidamente e fino in fondo.
     Di conseguenza, la morte, di cui essi principalmente trattano, ci appare in una luce completamente diversa; anzi possiamo dire che ci appare completamente illuminata nel vero senso del termine; per cui la nostra attuale interpretazione medico-ateistico-nichilista della morte viene non solo messa in discussione ma addirittura demolita.
     Lauf ci fa capire come i Libri tibetani dei morti rappresentino un'opera di inestimabile valore. In essi tutto è sviluppato in modo magistrale, per cui il lettore acquista realmente una visione nuova delle cose. Sono testi di grande coerenza che insegnano cosa è la morte ma anche cosa è la vita.
     La presente opera, che inizia sviluppando soprattutto il lato metodico, offre poi un'entusiasmante descrizione di stati di coscienza di solito ignorati. Illustra ad esempio con grande vivezza l'esperienza postmortale dell'infinito. Lo spirito risulta essere l'essenza del vuoto dello spazio celeste, un vuoto dietro il quale si intravvede il "positivo".
     L'interessantissimo capitolo sulla psiche e la coscienza evidenzia l'universalità di molti concetti dei libri tibetani dei morti. I confronti con analoghi scritti di altre culture facilitano la comprensione di molte concezioni e vi si ravvisa l'analogia fra i modi di concepire la morte. Lauf formula assiomi di una fenomenologia comparata della psiche che nessuno aveva ancora mai formulato.
     Emergono idee dell'umanità antichissime. Troviamo sorprendenti paralleli nell'Occidente cristiano, per esempio nel concetto di "capacità di operare sull'anima dopo la morte" di Tommaso d'Aquino, che corrisponde in forte misura al "karma" indiano.
     Dato che i Libri tibetani dei morti sono strutturati su simboli archetipici, l'autore non trova naturalmente difficoltà a mettere in rapporto molti di questi simboli col materiale ereditario filogenetico di Freud e con gli archetipi di Jung. Anzi, a suo avviso le attuali teorie psicologiche trovano conferma in molte esperienze segnalate in Tibet, che trapelano spesso nell'umana esistenza come realtà intuita. Per il Lauf l'intera storia dello spirito è una prova del fatto che anima e coscienza sono molto di più della mera e transitoria corporeità.
     Particolarmente interessante è infine la sua constatazione che, siccome il mondo altro non è che coscienza (nell'altro del resto sarebbe accessibile a noi), esiste anche una coscienza di base, un magazzino di tutte le impressioni, una sorta di oceano che, agitato dal karma, lascia emergere sempre nuove impressioni. Avviene una contrazione, una riduzione al puro inconscio, in un'altra dimensione, prima che dalla potenza primordiale possa sorgere una nuova coscienza? Lauf giustamente non si addentra in speculazioni del genere perché potrebbero portare alla formazione di idee invece che di realtà. In ogni caso, già le teorie di un'esistenza trascendente, sono di per sé realtà psichica anche se la ragione tende a respingerle. La costruzione di mondi trascendenti è già una realtà di cui val la pena occuparsi.
     Concludendo si può dire che il contrasto fra morte e vita viene qui relativizzato come raramente è stato fatto in Occidente; lo hanno fatto solo grandi mistici, quale era per esempio Rilke, che ci dice che spesso gli angeli non sanno se si trovano tra i vivi o tra i morti.
     Ora, cosa succederebbe se quest'opera di Lauf venisse tradotta in tibetano? Che effetto farebbe sul piccolo gruppo degli stessi Tibetani, oggi purtroppo in via di estinzione? Per essa è prevedibile lo stesso successo che Daisetz T. Suzuki si riprometteva da una traduzione in giapponese della sua opera inglese sul buddhismo zen: gli irriducibili bonzi, sarebbero stati costretti a rivedere e a ripensare tutta la loro tradizione, a trasformare tutto il loro mero sapere in una viva visione della realtà del mondo.
     Oggi il Tibet, a causa del materialismo impostogli dalla Cina, che sta rinnegando anche il proprio passato e quindi anche i propri archetipi, o dall'India, ugualmente Occidentalizzata, si sta lentamente dissolvendo, sia come realtà geografica che come realtà antropologica.
     Tuttavia questo Tibet continua a vivere in noi, rimane in noi, inestirpabile, come una grande aspirazione all'eterno mistero, in un'epoca, povera come la nostra, segnata dall'assoluta mancanza di misteri e dalla smitizzazione. Lauf ci indica una via di redenzione che salva ciò che è essenziale e che non può essere perso. Il Tibet,  lo vediamo, sta entrando nel bar-do; noi però sappiamo che questo è solo uno stato transitorio e che nulla di ciò che è essenziale e vero va mai veramente perduto.



mercoledì 1 dicembre 2010

Al di là del materialismo spirituale di Chögyam Trungpa

Recensione
“Percorrere rettamente il sentiero spirituale è un processo molto sottile… Ci sono numerose deviazioni che portano a una versione distorta, egocentrica, della spiritualità; possiamo cadere nell’inganno di credere che ci stiamo sviluppando spiritualmente, mentre invece stiamo rafforzando la nostra egocentricità mediante tecniche spirituali. A questa fondamentale distorsione si farà riferimento col nome di materialismo spirituale”.
Con queste parole Chögyam Trungpa apre un libro profondo e oltremodo “scomodo”, che ha segnato una vera e propria svolta nella diffusione del buddhismo in Occidente, non solo trasformandone la sapienza millenaria in un insegnamento vivo e radicato nella vita quotidiana di ciascuno di noi, ma anche mettendo a nudo i fraintendimenti e i rischi cui l'individuo si può esporre nel "piegare" questo sentiero, anche inconsciamente, al fine di consolidare il proprio Io.

Basterà leggere la bellissima introduzione per rendersi conto di quali fraintendimenti e rischi si stia parlando. Qui, Chögyam Trungpa fa riferimento alla metafora del "Signore della Forma", del "Signore della Parola" e del "Signore della Mente", impiegata nel buddhismo tibetano per descrivere il funzionamento dell'Io.

Il Signore della Forma si riferisce alla nostra spasmodica ricerca di sicurezza, di agio e di piacere fisico, finalizzata a "proteggerci dai fastidi degli aspetti grezzi, scabri, imprevedibili della vita". Il Signore della Parola si riferisce all'uso dell'intelletto per interpretare, "incasellare" e quindi controllare il mondo che ci circonda, utilizzando i concetti come filtri "per schermarci da una percezione diretta di ciò che è"; "il prodotto più pienamente sviluppato di questa tendenza sono le ideologie, i sistemi di idee che razionalizzano, giustificano e santificano la nostra vita". Il Signore della Mente, infine, "domina quando usiamo discipline spirituali e psicologiche come mezzi per conservare la nostra autocoscienza, aggrapparci al nostro senso del sé. L'Io ha il potere di piegare tutto, perfino la spiritualità, a suo vantaggio".

I tre Signori non si limitano a dominare il nostro modo di vivere e di vedere l'esistenza quotidiana; essi si insinuano nel sentiero spirituale, nella pratica meditativa, nel rapporto con il maestro. "I Signori usano il pensiero discorsivo come la loro prima linea di difesa. Più generiamo pensieri, più siamo affacendati mentalmente e più siamo convinti della nostra esistenza. Così i Signori cercano di crearne una costante sovrapposizione, in modo che non si possa vedere nulla oltre i loro strati. Se si capisce la strategia del creare continuamente pensieri sovrapposti, allora i Signori suscitano le emozioni per distrarci. L'eccitante, colorita, drammatica qualità delle emozioni cattura la nostra attenzione, quasi stessimo assistendo a un film quanto mai emozionante. In assenza di pensieri ed emozioni i Signori sfoderano un'arma ancora più potente, i concetti. Classificare i fenomeni crea il senso di un solido, definito mondo di 'cose'. Questo solido mondo ci rassicura che anche noi siamo una cosa solida, continua. Il mondo esiste, dunque io, che percepisco il mondo, esisto".

Ma la rivoluzione del Buddha non è consistita tanto nel sopprimere i pensieri, le emozioni, i concetti e le altre attività della mente, quanto nel conoscerli per ciò che essi sono, nel "lavorare con la loro struttura" e quindi trasformarli da espressione di un'ambizione egoica nell'espressione di una mente risvegliata. In questo straordinario cammino verso una libertà che è assenza di sforzo (lo sforzo di provare la nostra esistenza, di affermare la nostra visione egocentrica del mondo), noi occidentali dovremo guardarci dalla tentazione di voler accumulare una preziosa ma sterile "collezione di sentieri spirituali". "Forse abbiamo studiato la filosofia occidentale o quella orientale, abbiamo praticato lo yoga o studiato sotto una quantità di grandi maestri. Crediamo di aver accumulato un bel po' di conoscenza. Eppure, dopo tanta strada, c'è ancora qualcosa cui rinunciare. Le nostre immense collezioni di conoscenza ed esperienza fanno parte della grande vetrina dell'Io; non abbiamo fatto che creare un negozio di antiquariato".


mercoledì 24 novembre 2010

Impegnati sulle vie del Bodhisattva - di Shantideva.

Mediante le virtù di questo sforzo compiuto per accedere alle vie che conducono all'illuminazione, tutti gli esseri viventi vengano ad impegnarsi in questa strada. Possano tutti gli esseri, ovunque si trovino, sofferenti nel corpo e nella mente, ottenere un oceano di felicità e di gioia per virtù dei miei meriti. Perché fintantoché essi rimangono nell'esistenza ciclica possa la loro felicità terrena mai diminuire, e possano tutti loro ininterrottamente ricevere onde di gioia da Bodhisattva.

Possano coloro che sono indeboliti dal freddo trovare calore e possano coloro che sono oppressi dal calore trovare refrigerio nelle illimitate acque che sempre scorrono dalle grandi nuvole dei (meriti) di Bodhisattva.

Possano tutti gli animali essere liberi dalla paura di essere divorati gli uni dagli altri; possano gli affamati fantasmi essere felici quanto gli uomini del Continente Settentrionale.

Possano i ciechi riconoscere le forme, possano i sordi udire i suoni, e come avvenne a Mayadevi, possa ogni donna incinta partorire senza dolore. Possa il nudo trovare il vestito, e l'affamato il cibo; possa il disperato trovare nuova speranza, costante felicità e prosperità.

Possano tutti coloro che sono sofferenti e malati rapidamente essere liberati dalla loro sofferenza, e possa mai più verificarsi alcuna malattia nel mondo.

Possa il timoroso cessare di avere paura e coloro che sono prigionieri essere liberati; possano gli impotenti trovare il potere, e possa la gente avere pensieri di amicizia. Possano tutti i viandanti trovare felicità, ovunque si rechino, e senza alcuno sforzo siano in grado di compiere quanto si sono proposti di fare.

Possano coloro che salpano con nave o barca ottenere qualunque cosa essi desiderino, e dopo essere felicemente tornati a casa ritrovarsi in gioia con i loro parenti.

Possano i viandanti inquieti che hanno perduto la strada incontrare compagni di viaggio e senza alcun timore di ladri o tigri possa il loro cammino essere facile, senza alcuna fatica.

Possano coloro che si trovano nello spaventoso deserto senza sentiero, i bambini, gli anziani, gli abbandonati, gli stupidi ed i malati di mente essere protetti da benefattori celesti.

Possano tutte le donne incinte partorire senza dolore, come la tesoreria dello spazio, e senza (ciò che è l'origine di) dispute o torto alcuno, possano esse godere come desiderano.

Possano tutte le creature incarnate ininterrottamente ascoltare il suono di Dharma proveniente da uccelli ed alberi, raggi di luce e dello spazio stesso.

Possano i Celesti portare le piogge nel giusto momento, affinché il raccolto sia abbondante.

Possano i regnanti sempre agire in accordo con Dharma ed i popoli della terra sempre prosperare.

Possa nessuna creatura vivente mai soffrire, fare del male o ammalarsi; possa nessuno avere paura o essere sminuito, o il suo animo essere depresso.

Possano le creature mai sperimentare la miseria di regni inferiori, e possano mai conoscere alcuna privazione. In una forma fisica superiore a quella degli dei possano esse rapidamente raggiungere il buddismo. Infatti, finché durerà lo spazio e finché vi saranno esseri viventi, fino ad allora anch'io mi impegnerò a cacciare la miseria dal mondo.

Possano tutte le pene delle creature viventi maturare (unicamente) su di me, e attraverso la potenza del Bodhisattva Sangha possano tutti gli esseri provare la felicità.

Brani tratti dall'introduzione di "Impegnati sulle vie del Bodhisattva", del santo e saggio buddista Shantideva, vissuto nell'ottavo secolo.

venerdì 12 novembre 2010

Prima Paramita: La Generosità

La pratica della generosità e la prima perfezione in essa vanno distinte le offerte ai Tre Gioielli e i doni destinati a tutti gli esseri senzienti.

Le offerte
Conoscendo e tenendo ben presenti le qualità dei Tre Gioielli, possiamo far loro vari tipi di offerte, con grande fiducia tradizionalmente, si tratta di offerte simboliche acqua pura, fiori, incenso luce (una lampada al burro una candela, e cosi via), acqua profumata vivande caratterizzate da aromi e sapori diversi, suoni melodiosi al Sangha possiamo anche offrire cibo degli abiti, alloggio o qualsiasi altro bene materiale necessario, oppure vari ornamenti per i templi.
Una seconda categoria di offerte, questa volta mentali, può includere tutto ciò che esiste da sempre, che si tratti delle terre divine o umane con tanto di campi  montagne, fiumi  oceani, tutti gli specchi d'acqua  tutte le aiuole, i prati, le foreste, i frutti, i cereali, tutte le abitazioni, i cibi, le vesti, le sete, i broccati, i gioielli, i beni e ciò che si possiede, tutti i giovani, ragazzi e ragazze, gli animali domestici, i daini e le cerbiatte, gli uccelli e gli animali selvatici......
Possiamo infine fare offerte mentali di altro genere, immaginandoci forme meravigliose sonorità armoniose fragranze squisite, sapori deliziosi, delicate e lievi sensazioni tattili, o qualsiasi oggetto di conoscenza che sia gradevole per la mente oltre che diversi oggetti concreti o offerte simboliche come gli otto segni di buon augurio, ì sette attributi regali del potere temporale, le otto sostanze di buon augurio Immaginando che tutte queste offerte si estendano fino ai confini dello spazio, le presentiamo ai Tre gioielli e alle Tre radici.
Qual e l'utilità di tutte queste offerte? Chi le riceve, i lama, i buddha e i bodhisattva hanno portato a termine i due sviluppi delle azioni benefiche e dell'intelligenza non-mediata, realizzando quindi la vera natura di ogni cosa. La conoscenza suprema essendo per loro qualcosa di acquisito, hanno domato e liberato la loro mente, e sono liberi dal pensiero egoico e dall'attaccamento a qualsiasi offerta. Ciò nonostante, proprio perche sono sublimi, accettano con piacere queste offerte affinché possa crescere il karma positivo di chi ha fiducia in loro.
Dal momento che hanno questo amore e queste capacita, se facciamo loro delle offerte con fiducia e rispetto, possiamo a nostra volta portare a compimento lo sviluppo delle azioni benefiche, accedendo a quello dell'intelligenza non-mediata Le offerte, dunque, ci consentono di praticare contemporaneamente entrambi gli sviluppi.
Il seme di un albero porta frutto grazie all'interazione di diversi agenti interdipendenti, quali la terra, l'acqua, il calore e l'aria Allo stesso modo, il carattere sublime di coloro a cui l'offerta e diretta, la loro benevola accettazione l'eccellenza di ciò che offriamo e la fervente devozione che motiva l'offerta stessa formano un insieme benefico di agenti e cause Grazie alla pratica congiunta del duplice sviluppo lungo tutto il cammino, li portiamo entrambi a compimento ottenendone il frutto 1 Tre corpi del buddha.
I doni
Il dono è animato dalla compassione nei confronti di rutti gli esseri senzienti sballottati dalle onde delle apparenze illusorie.
Si distinguono quattro tipi principali di dono:
a: doni materiali dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, dare abiti a coloro che non li hanno dare i propri beni agli indigenti, eccetera,
b: il dono della protezione offrire un rifugio a chi ha paura, medicine ai malati, eccetera
c: il dono dell'amore riconfortare 1 sofferenti. Per mezzo di un grande amore, possiamo far dono dei nostri beni e persino del nostro corpo,
d: il dono del dharma mormorare all'orecchio degli esseri senzienti i nomi del buddha profonde formule sacre, mantra, oppure insegnare il dharma a che lo desidera e cosi via.
La generosità ha come oggetto gli esseri senzienti come causa una grande compassione, come attività i quattro tipi di dono La sua pratica permette di portare A compimento entrambi gli sviluppi, e il suo frutto è duplice da un lato il conseguimento per se stessi del dharrmakaya, e dall'altro il conseguimento dei due corpi formali che si manifestano per aiutare gli esseri senzienti.



domenica 7 novembre 2010

Il risveglio di Siddhartha - Parte II

Siddhartha si sedette nella posizione del loto e osservò il fiume scorrere tranquillamente, mentre una leggera brezza faceva stormire l'erba lungo la riva. Nell'oscurità la foresta era quieta, sebbene brulicante di vita. Migliaia di insetti turbinavano attorno a lui. Egli focalizzo' la sua coscienza sulla respirazione e chiuse dolcemente gli occhi, mentre la stella della sera appariva nel cielo.

Grazie alla Totale Consapevolezza, la mente, il corpo e il respiro di Siddhartha erano divenuti una cosa sola. La sua pratica gli consentiva di sviluppare grandi poteri di concentrazione che egli utilizzava per proiettare la luce della sua coscienza sul suo corpo e sul suo spirito. A uno stadio meditativo più  profondo, percepì'la presenza di molteplici esseri nel proprio corpo: vite organiche e inorganiche, minerali, schiume, erbe, insetti, animali ed anche umani. Vide che, nello stesso istante, altri esseri parimenti lo contenevano ed ebbe la visione delle proprie vite passate, di tutte le sue nascite e di tutte le sue morti. Assistette alla creazione e alla distruzione di migliaia di mondi e di altrettante stelle. Senti' in sè le pene e le gioie di ciascun essere vivente, nati da una madre, da un uovo, dalla scissione, dividendosi essi stessi a loro volta in nuove creature. Ciascuna cellula del suo corpo conteneva il Cielo e la Terra e viaggiava attraverso i tre tempi: il passato, il presente e il futuro. Questa fu la sua prima visione della notte.

Gotama conobbe successivamente una fase ancora più profonda di meditazione. Vide innumerevoli mondi nascere e scomparire, infiniti esseri attraversare miliardi di nascite e di morti. Si rese conto che tali avvenimenti non erano altro che fenomeni esteriori e irreali, paragonabili ai milioni di onde che si formano e scompaiono sulla superficie del mare eterno. Se le onde avessero compreso di non essere altro che acqua, avrebbero superato la nozione di nascita e di morte e avrebbero conosciuto la vera pace interiore, sbarazzandosi in tal modo di ogni paura. Tale rivelazione permise a Gotama di trascendere il ciclo delle nascite e delle morti ed egli sorrise. Il suo sorriso era simile a un fiore che s'apriva in quella notte profonda, illuminandosi di un alone di luce. Era il sorriso della comprensione sublime, l'intuizione della purificazione da ogni macchia. Questa fu la sua seconda visione.

Proprio in quel momento, scoppiò un temporale, alcuni lampi squarciarono il cielo, pesanti nubi nere nascosero la luna e le stelle, la pioggia cadde. Gotama, bagnato fino alle ossa, non si mosse e prosegui'nella meditazione.

Senza esitazioni, proiettò la luce della sua coscienza sul suo spirito. Vide che tutti gli esseri umani soffrivano, non riconoscendo di prendere parte a una medesima realtà, insieme a tutte le altre creature. L'ignoranza faceva sorgere un'infinità di dispiaceri, di confusione, di problemi e causava l'avidità, la collera, l'arroganza, il dubbio, la gelosia e la paura. Imparando a pacificare il nostro spirito, allo scopo di osservare profondamente la vera natura di ogni cosa, noi possiamo raggiungere la perfetta comprensione che dissolve pene ed angosce, e genera accettazione e amore.

Gotama si rese conto che la comprensione e l'amore non erano che una sola cosa. Senza comprensione, non può esservi vero amore. La personalità di ciascun individuo è formata da fattori fisici, emozionali e sociali. Se comprendiamo questo, non odieremo più persino chi si comporta con crudeltà e potremo aiutarlo a trasformare i suoi fattori fisici, emozionali e sociali. La comprensione ha per corollario la compassione e l'amore che, a loro volta, conducono alla giusta azione. Per amare, occorre innanzi tutto comprendere.

La chiave della liberazione è la giusta comprensione. Per conseguirla, occorre vivere in Totale Consapevolezza, a contatto diretto con la vita nel momento presente, osservando ciò che accade esattamente, in noi e attorno a noi. La Totale Consapevolezza rafforza la nostra capacità di praticare l'osservazione profonda. Quando noi riusciamo a penetrare con intensità nel cuore delle cose, queste ci si rivelano. Il tesoro segreto della Totale Consapevolezza allora ci appare e ci conduce alla liberazione e al Risveglio. Grazie alla comprensione, al pensiero, alla parola, all'azione, alla vita, allo sforzo, alla coscienza e alla concentrazione giuste, l'esistenza diviene radiosa. Siddhartha diede a tale via il nome di Nobile Sentiero: aryamarga.

Osservando in profondità il cuore di tutti gli esseri, Siddhartha ebbe la visione precisa dello stato di spirito in cui si trovavano. Fu capace di comprendere le loro grida di sofferenza e di gioia. Raggiunse i livelli della visione e dell'udito divini, acquisì la capacità di viaggiare in ogni direzione senza spostarsi. Giunse adesso alla fine della terza tappa. Il temporale era cessato. Le nuvole si diradarono, per lasciar brillare la luce pallida della luna e delle stelle.

Gotama sentì aprirsi la prigione, in cui era stato confinato durante le sue migliaia di esistenze. La sua guardiana, l'ignoranza, gli aveva offuscato la mente con fitti veli. Essa, ingannata da incessanti pensieri illusori, aveva falsamente diviso la realtà in soggetto e oggetto, in me e altri, in esistenza e non-esistenza, in nascita e morte. Da queste false concezioni era nata l'illusione della prigionia nella trappola delle sensazioni, dei desideri insaziabili, dell'avidità' del guadagno e del divenire. Le sofferenze causate dalla nascita, dalla vecchiaia, dalla malattia e dalla morte avevano contribuito a consolidare le mura di questo carcere. L'unica reazione davvero efficace consisteva nell'agguantare la guardiana di questa prigione, per comprenderne la vera natura. Il solo metodo capace di sconfiggerla era il Sentiero delle Otto Giuste Pratiche. Una volta debellata la carceriera, anche la prigione sarebbe scomparsa, per sempre.

L'asceta Gotama sorrise e pensò: O guardiana, ora ti vedo. Per quante vite mi hai tenuto nella cella della nascita e della morte ? Adesso, distinguo chiaramente i tuoi tratti, non potrai costruire mai più mura attorno a me.

Alzando lo sguardo, Siddhartha vide la stella del mattino all'orizzonte, che scintillava come un gigantesco diamante. L'aveva osservata ripetutamente. In quel giorno, gli pareva di scoprirla per la prima volta. Lo spettacolo era così abbagliante da essere la manifestazione dell'Illuminazione. Siddhartha restò a contemplare la stella e si disse, colmo di compassione:

Tutti gli esseri possiedono i semi del Risveglio. Purtuttavia, essi annegano nell'oceano delle nascite e delle morti attraverso innumerevoli esistenze !

Aveva realizzato la Via suprema e raggiunto lo scopo. Adesso, il suo corpo conosceva la pace e la gioia. Pensò a tutti gli anni di ricerca segnati da delusioni e cimenti. Pensò al padre, alla madre, alla zia, a Yasodhara, a Rahula, a tutti gli amici. Rivide il palazzo, Kapilavastu, il suo popolo e il suo paese e tutti coloro che sopportavano privazioni e soffrivano la povertà, specialmente i bambini. Si fece la promessa di mettere a disposizione di tutti la sua scoperta, per aiutare gli esseri a liberarsi da soli delle loro sofferenze. Dal profondo di sè sgorgò un amore senza limiti per tutta l'umanità.

Il risveglio di Siddhartha - Parte I

(Traduzione dal francese a cura del Comitato Traduzioni Sangha Rime' Italia da Sur les traces de Siddharta, in UDAHO II,2) 

Sotto l'albero pippal (nome attribuito all'albero della bodhi), l'asceta Gotama focalizzò i suoi grandi poteri di concentrazione sull'osservazione profonda del suo corpo. Ciascuna delle sue cellule era come una goccia d'acqua nel flusso perpetuo della nascita, dell'esistenza e della morte. Egli non riuscì a trovare nulla, nel corpo, che fosse permanente o che contenesse un sè separato. Mescolata al fiume del corpo, vi era la corrente delle sensazioni, nella quale ciascuna sensazione era come una goccia d'acqua. Tutte le gocce si mescolavano in un processo di nascita, d'esistenza e di morte. Alcune sensazioni erano gradevoli, altre sgradevoli, altre ancora neutre. Tutte però erano impermanenti, apparendo e scomparendo come le cellule del corpo. Con l'ausilio della sua eccezionale concentrazione, Gotama esplorò il flusso delle percezioni che scorreva a fianco dei flussi del corpo e delle sensazioni. Le gocce di questo fiume di percezioni si urtavano l'un l'altra e si influenzavano nel corso del loro processo di apparizione, di conservazione e di scomparsa. Se le nostre percezioni sono fedeli, la realtà si rivela allora da sola con facilità. Al contrario, se sono false, la realtà resta occultata. Gli esseri vivono prigionieri di un'illimitata sofferenza, a causa delle loro percezioni erronee, credendo permanente ciò che è impermanente, dotato di sè ciò che ne è privo, immortale ciò'che nasce e muore, inseparabile ciò che può essere diviso.
Gotama diresse quindi la sua attenzione sugli stati mentali che sono all'origine delle sofferenze, la paura, l'ira, l'odio, l'arroganza, la gelosia, l'invidia e l'ignoranza. Utilizzò la coscienza totale, radiante in lui come un fulgido sole, per rischiarare la natura di tutti i sentimenti negativi e vide che la loro origine era radicata nell'ignoranza. Antitesi della Totale Consapevolezza, essi erano oscurità, assenza di luce. Intuì'che la chiave della liberazione dovesse consistere nello spezzare quest'ignoranza e nel penetrare in profondità l'essenza del reale, non attraverso l'intelletto, ma attraverso la sua esperienza diretta.

Nel passato, Siddhartha aveva utilizzato metodi differenti per vincere la paura, l'ira e l'avidità, i quali tuttavia non avevano portato frutto, in quanto non rappresentavano che tentativi di sopprimere i sentimenti e le emozioni. Egli comprese in quel momento che la ragione profonda del suo scacco era l'ignoranza e che, se fosse giunto a liberarsene, gli ostacoli mentali sarebbero scomparsi da soli, come ombre che si dissolvono di fronte al sole che sorge. Le visioni di Siddhartha erano la conseguenza della sua intensa concentrazione.

Sorrise e alzò gli occhi verso una foglia di pippal che si staccava sul fondo blu del cielo e s'agitava al vento come se intendesse fargli segno di qualcosa. Osservandola con attenzione, egli vi scorse chiaramente la presenza del sole e delle nuvole, in effetti, senza sole, calore e luce, quella foglia non avrebbe potuto esistere,questo è, perché quello è, quello è, perché questo è. Distinse anche, nella foglia, la presenza delle nuvole, senza nuvole non vi è pioggia, dunque nessuna foglia. Parimenti, in essa osservava la terra, il tempo, lo spazio e la mente, tutti quanti erano presenti nella foglia. La sua esistenza era un miracolo meraviglioso.

Anche se si ritiene abitualmente che le foglie nascano a primavera, Gotama si rese conto che esse preesistevano da lungo tempo: nella luce del sole, nelle nuvole, nell'albero e in lui stesso. Vedendo che la foglia non era mai nata, comprese che pure lui non era mai venuto all'esistenza. La foglia e lui stesso si erano semplicemente manifestati, nella loro forma attuale, in un tempo determinato, e se essi non erano mai nati, parimenti, non potevano morire. Grazie a tale visione, le idee di nascita e di morte, di apparizione e di scomparsa, svanirono. La vera natura della foglia e di se stesso si rivelarono spontaneamente. Poteè rendersi conto che, per interazione, l'esistenza di un fenomeno rendeva possibile quella di tutti gli altri. Una sola manifestazione conteneva tutte le altre. Tutte quante, in effetti, erano una sola.

La foglia e il suo corpo non erano che una cosa sola, non possedevano un sé separato e non esistevano indipendentemente dal resto dell'universo. Vedendo la natura interdipendente di tutti i fenomeni, Siddhartha ne realizzò altre si la vacuità, il fatto che tutte le cose sono prive di un sè isolato e separato. Comprese che la chiave della liberazione si trovava in questi due principi di interdipendenza e di non sè. Le nuvole scorrevano adesso nel cielo, formando una cortina bianca dietro il pippal diafano. A sera, avrebbero forse incontrato un fronte freddo e si sarebbero trasformate in pioggia. Le nuvole erano una manifestazione, e la pioggia un'altra, di un solo e medesimo fenomeno. Parimenti, le nuvole non erano mai nate e non sarebbero mai scomparse. Se fossero state capaci di comprendere questo, esse avrebbero cantato di gioia, divenendo pioggia battente sopra montagne e foreste.

Illuminando i fiumi del suo corpo, delle sue sensazioni, delle sue percezioni, delle sue formazioni mentali e della sua coscienza, Siddhartha comprese adesso che l'impermanenza e la vacuità di sè erano le condizioni sine qua non dell'esistenza e della vita, i principi senza i quali nulla poteva nascere nè svilupparsi. Se un chicco di riso non avesse posseduto un'esistenza mutevole e sprovvista di un sè personale, non avrebbe mai potuto svilupparsi e divenire una pianta di riso. Se le nuvole fossero state dotate di un sè proprio e immutabile, non avrebbero mai potuto divenire tali.

Così, egli pensò, accettare la vita significa accettare l'impermanenza e la vacuità'di sè. La radice della sofferenza sta nella credenza erronea della permanenza e dell'esistenza di un sè individuale, separato. Realizzando ciò, ognuno si sarebbe accorto che non vi è nè nascita, nè morte, nè creazione, nè distruzione, nè uno, nè molteplice, nè interiore, nè esteriore, nè grande, nè piccolo, nè puro, nè impuro. Queste non sono altro che false distinzioni, create dall'intelletto. Se un essere accede alla natura vuota di tutte le cose, potrà trascendere ogni barriera mentale e liberarsi dal ciclo della sofferenza.

Giorno e notte Gotama meditò sotto l'albero pippal, proiettando la luce della sua consapevolezza sul suo corpo, sulla sua mente e sull'universo intero. I suoi cinque amici l'avevano abbandonato e d'ora in poi la foresta, il fiume, gli uccelli e le migliaia di insetti che vivevano sulla terra e negli alberi, sarebbero stati i suoi soli compagni. Il grande albero pippal era il suo fratello spirituale, così come la stella della sera, che appariva allorché si sedeva a meditare sino a tarda notte.

Le ragazze del villaggio venivano a trovarlo tutti i pomeriggi. Un giorno, Sujata gli portò un dolce di riso, cotto con latte e miele. Svasti gli offri una bracciata d'erba kusa, fresca. Allorché la giovane contadina se ne andò Gotama ebbe l'intuizione che, quella notte, avrebbe conseguito il Risveglio. Aveva avuto, nel dormiveglia, numerosi ed insoliti sogni. In uno di essi si era veduto disteso di lato: le sue ginocchia toccavano l'Himalaya, la mano sinistra i fiumi del mare d'Oriente, la destra quelli d'Occidente. I suoi due piedi poggiavano sui bordi del mare del sud. In un altro sogno, un loto gigante si alzava dal suo ombelico, fino alle nuvole più alte. In un terzo, innumerevoli uccelli multicolori, provenienti da tutte le direzioni, volavano verso di lui. Tali segni annunciavano l'imminenza del Grande Risveglio.



lunedì 1 novembre 2010

Terza Paramita: La Pazienza

Quando parliamo delle sei paramita, parliamo degli ideali e delle azioni del Bodhisattva; basandoci sulla prime due paramita, la generosità e la moralità, svilupperemo la terza paramita e cioè la pazienza.
La pazienza è una delle pratiche più importanti nel buddhismo, il Buddha stesso ha detto "Non c'è miglior dharma della pazienza, non esiste un'altra pratica del dharma che praticare la pazienza". L'opposto della pazienza è la rabbia o l'odio. Il Buddha stesso ha detto "Non c'è motivazione pratica, o attitudine, più dannosa dell'odio e della rabbia". Le parole del Buddha non sono un ordine o un comandamento, ma sono una sorta di indicazione che viene dalla sua intelligenza razionale. Perché la pazienza è una pratica così importante e allo stesso tempo così difficile da praticare? Perché la rabbia, il suo opposto, è una delle attitudini mentali più dannose e più radicate dentro di noi.
Per parlare della pazienza dobbiamo per prima cosa avere chiaro quali sono gli svantaggi della rabbia e quali sono gli effetti distruttivi che produce dentro di noi. Quanto più è forte il dominio della rabbia su di noi tanto più è difficile superarla. Quando parliamo di rabbia non parliamo soltanto di quei momenti in cui questa viene fuori nei confronti di qualcuno, perché in realtà esiste sempre dentro di noi. Quando la rabbia appare e sgorga fuori e dentro di noi, in quello stesso momento dentro noi stessi non c'è più spazio per la pazienza. In quel preciso momento noi abbiamo perso il nostro equilibrio e siamo totalmente senza controllo: in questa situazione possono verificarsi molti problemi e possiamo compiere molti errori. Quando la rabbia alla fine scompare, ciò che rimane è soltanto il rimorso per quello che abbiamo sperimentato e per gli effetti distruttivi che ha provocato.
Dobbiamo tenere presente quali sono i poteri della rabbia, il suo potenziale distruttivo e quali sono i danni che può generare. La pazienza è l'unico mezzo che ha la capacità di ridurre gli effetti della rabbia dentro di noi, ma per far sì che questo accada, dobbiamo praticare la pazienza anche quando la rabbia non è presente. È importante rendersi conto che non bisogna praticare la pazienza soltanto nei momenti in cui esplode la rabbia, ma anche quando siamo in una situazione calma e tranquilla, confortevole e amichevole, imparando ad essere consapevoli della pazienza e a sviluppare un tipo di training mentale che ci permetta di essere consapevoli del fatto che siamo pazienti.
Questo è un mezzo molto efficace per ridurre il potenziale della rabbia.

Canonicamente la pazienza viene divisa in tre categorie differenti: la prima è quel genere di pazienza che ci permette di fronteggiare le reazioni che sorgono in noi quando siamo attaccati da altre persone: per esempio, se qualcuno ci minaccia o ci attacca con un bastone, noi dovremmo essere in grado di pensare che non è lui che ci sta colpendo, ma è il bastone, e indirettamente lui, ma è quell'arma che ha in mano che ci sta colpendo, lui ci colpisce mosso dalla sua rabbia.
C'è anche un'altra maniera di poter praticare la pazienza: anche se noi perdessimo qualcosa, ad esempio 100.000 lire, dovremmo essere in grado di dire "Bene, ho perso 100.000 lire, ma non ho perso la mia salute, e non ho perso tutto quello che avevo".
Queste sono occasioni per praticare la pazienza e sono un allenamento che ci aiuta a preservare la nostra pazienza e incrementare la nostra dignità, altrimenti ci comportiamo come quelle persone che, se gli cade una tazzina, per rabbia ne rompono anche un'altra. In questo caso c'è un'ulteriore distruzione, invece se rompiamo una tazzina dovremmo essere in grado di dire "Ne ho altre cinque". Questi sono solo degli esempi che danno un'idea della pazienza superficiale.

Il secondo livello di pazienza è quello che ci permette di accettare qualsiasi tipo di problema, di difficoltà e di sofferenza che ci può accadere. Ad esempio quando ci ammaliamo entriamo in depressione, ci abbattiamo e questo non fa che aggravare la malattia. L'ammalarci è una cosa naturale, in quanto il nostro corpo ha in sé la natura della malattia: la malattia è una disarmonia dei tre elementi che compongono il nostro corpo. Il nostro spirito è sempre lo stesso, non importa in quali condizioni sia il nostro corpo l'importante è che il nostro spirito sia centrato. Spesso invece succede che quando il nostro corpo si ammala, sentiamo che anche il nostro spirito si ammala e questo non fa che aggravare la situazione. Dovremo essere in grado di accettare questa condizione che è connaturata al nostro corpo.
Un altro esempio di questo tipo di pazienza è il traffico. Noi stiamo a Roma, una città dove esiste una concentrazione di milioni di persone e questo fa sì che ci sia molto traffico; dobbiamo essere consapevoli di questo fatto e non arrabbiarci quando siamo in macchina, suonando continuamente il clacson. Ok, vivo a Roma e c'è traffico. Questa è la pazienza che ci permette di affrontare problemi e difficoltà. Se noi abbiamo una capacità di accettare e di dare il benvenuto a queste difficoltà, questi non saranno più dei problemi, ma diventeranno una cosa normale. D'altra parte siamo sempre nel Samsara e in questa situazione ci sono molti problemi. Se ciò non fosse non saremo più nel Samsara, ma saremo liberati.
Questo tipo di accettazione delle difficoltà genera uno stato di tranquillità, di pace mentale che arricchisce le nostre qualità mentali. La pazienza è anche in grado di curare la nostra salute fisica. Questo è molto importante perché la gente spesso si ammala soltanto per depressione, ci sono invece delle persone il cui corpo è molto sotto pressione mentre la loro mente e il loro spirito sono sempre calmi. Quel tipo di attitudine mentale è anch'essa stessa una forma di pazienza.

Il terzo livello di pazienza è un tipo di pazienza più dharmico, è quel tipo di pazienza che ci permette di affrontare le difficoltà e gli ostacoli nella pratica del Dharma, per esempio la meditazione del mattino, per esempio quando non ci vogliamo alzare. In quel caso dobbiamo essere pazienti e vincere quella forma di pigrizia. La pigrizia non è la pazienza. Bisogna essere in grado di affrontare questi piccoli problemi allo scopo di poter progredire nella pratica e questo è utile non soltanto per la pratica del dharma, ma anche per il vostro lavoro. Se ad esempio ci alziamo la mattina presto e ci diamo da fare, puliamo la casa, andiamo in giardino, tagliamo l'erba, sistemiamo le aiuole questo è anche utile e salutare per la nostra calma mentale. Una cosa che ho sperimentato sia nella comunità tibetane, sia nei Monasteri, che nelle famiglie, è che ci sono persone molto attive: si alzano presto, si danno da fare, mentre invece ci sono altre persone che se la prendono comoda. Non è che una cosa sia buona e l'altra cattiva, però da questo si nota che dopo un po' le persone che sono più attive hanno un differente sviluppo spirituale.
Questa è la pazienza per affrontare la pratica del dharma, e le sue difficoltà.
Dovremmo essere sempre in una condizione di gioia, di tranquillità, di felicità per poter essere in grado di conseguire le più alte realizzazioni. Anche sedersi per quindici, venti minuti di meditazione regolarmente è una forma di pazienza.

Questi sono i tre livelli della pazienza. All'interno di questi tre livelli ci sono molte altre suddivisioni. D'altra parte la pazienza non serve solamente a fronteggiare la rabbia o a reprimerla, ma è una caratteristica che serve per raggiungere qualsiasi livello di obiettivo spirituale. La pazienza può sopraffare la rabbia, l'odio e anche l'avversione. Una volta che noi saremo riusciti a liberarci di questi tre stati negativi vorrà dire che staremo in uno stato di tranquillità, di pace, di pazienza. La pazienza è una delle paramita che fanno parte delle azioni del Bodhisattva. Qualsiasi azione del Bodhisattva deve essere basata sulla Bodhicitta. Quel tipo di pazienza a cui noi aspiriamo è bel lontana dallo stato in cui siamo, quindi dobbiamo soprattutto sviluppare l'aspirazione a quel tipo di qualità: "Possa io un giorno ottenere quel tipo di pazienza". Chiaramente la pazienza a cui ci riferiamo è una delle azioni del Bodhisattva, ma quel tipo di azione nello stato in cui siamo, è qualcosa di astratto. E' importante conoscere questo tipo di azioni del Bodhisattva e prenderle come un obiettivo per poter salire il primo gradino che ci porterà verso il nostro obiettivo futuro, perché anche solo conoscere e generare ammirazione per la pazienza del Bodhisattva è già un arricchimento spirituale. Quindi quando parliamo della paramita della pazienza, non dobbiamo immediatamente praticare tutte le forme di pazienza. E' importante sapere che esistono e il primo gradino è generare un'ammirazione verso questo tipo di azioni e prenderle come un nostro ideale.

Un altro aspetto della pazienza è quello che noi chiamiamo la tolleranza. Questa è una pratica molto difficile. Per quanto mi riguarda quando sono venuto in Italia ho cominciato a frequentare l'Università Cattolica e lì ho incontrato molti amici di religione cristiana. In quel contesto non è stato semplice dover fronteggiare situazioni dove si verificavano opinioni diverse. Questo è un lavoro alquanto difficile, ma aiuta molto ad aprire il tuo cuore, ad essere più flessibile e più aperto, e questo accresce la saggezza. Inoltre tutto ciò è stato utile non solo a me, ma anche agli amici cristiani, in quanto si sono resi conto delle difficoltà che avevo e hanno capito che non era facile stare in mezzo a delle opinioni diverse. Io l'ho trovato utile perché queste situazioni mi hanno permesso di comprendere come funziona il mio ego. E questo fa parte della pratica della tolleranza e della pazienza.

Quando ad esempio, ci capita di dover camminare sotto la pioggia senza ombrello, anche in questo caso dobbiamo essere pazienti in quanto non c'è modo di fermare la pioggia. Non c'è bisogno di arrabbiarsi e correre di qua e di là alla ricerca di un ombrello oppure di farsi prendere dal malumore: ok, siamo sotto la pioggia, ci bagneremo i vestiti ed il massimo che ci potrà capitare è che ci venga un po' di febbre, ma prenderemo una medicina e ce ne andremo a letto. Può essere interessante provare deliberatamente l'esperienza e cioè andare sotto la pioggia senza ombrello e vedere come reagiamo. Questo è molto interessante e molto efficace. La pazienza è il germe della pace, non c'è bisogno di parlare della pace universale o della pace mondiale, ciò che è importante è la pace con noi stessi, poiché da questa derivano anche le altre.
Alcune persone parlano della pace universale e della pace del mondo con molta rabbia, con un ego molto rabbioso e questo è un atteggiamento contraddittorio. Non è una cosa, giusta ed inoltre lo trovo molto buffo: mi chiedo come fanno queste persone a parlare della pace nel mondo con tanta rabbia e battendo i pugni sul tavolo. E' importante prima di tutto generare la pace dentro di noi, da questa pace interna si espande la pace intorno a noi. Lo sbocciare di un fiore genera pace di per sé, ma non contribuisce alla pace universale, anche se tutti quelli che lo guardano si sentono in pace.
La pace e la tolleranza sono molto importanti, non solo per la pratica, ma anche per la vita, per l'amicizia, per la salute e per ogni altra cosa. Anche alla fine, morire con pazienza sarà la cosa migliore da fare, tranquilli e in una maniera molto pacifica come se ci addormentassimo. Se noi ci addormentiamo con un animo paziente e tranquillo il nostro sonno sarà tranquillo e salutare; se invece ci addormentiamo arrabbiati avremo dei sogni strani e la mattina ci sveglieremo con un senso di malessere e con la mente confusa. Per questo il Buddha ha detto che la pazienza è la pratica più importante del Dharma. Questo non vuol dire che bisogna andare nella Terra Pura, nel paradiso di Buddha o in qualche altro regno dei cieli, la pazienza è utile alla vita terrena. Questo tipo di discorso possiamo prenderlo come oggetto della nostra analisi: dobbiamo giudicare se una cosa è positiva o meno, se è salutare o meno, se ci porta vantaggio o meno.


sabato 30 ottobre 2010

Mantra di Vajrasattva

OM VAJRASATTVA SAMAYA
MANU PALAYA
VAJRASATTVA TENOPA
TISHTA DRIDHO ME BAWA
SUTOKAYO ME BAWA
SUPOKAYO ME BAWA
ANURAKTO ME BAWA
SARWA SIDDHI ME PRAYATSA
SARVA KARMA SUTSA ME
TSIT TAM SHRIYAM KURU HUNG
HA HA HA HA HO BHAGAVAN
SARWA TATHAGATA VAJRA MAME MUTSA
VAJRA BAWA MAHA SAMAYA SATO AH
(Tibetano)
OM BENZA SATO SAMAYA
MANU PALAYA
BENZA SATO TENOPA
TISHTA DRIDHO ME BAWA
SUTOKAYO ME BAWA
SUPOKAYO ME BAWA
ANURAKTO ME BAWA
SARWA SIDDHI ME PRAYATSA
SARVA KARMA SUTSA ME
TSIT TAM SHRIYAM KURU HUNG
HA HA HA HA HO BHAGAVAN
SARWA TATHAGATA BENZA MAME MUTSA
BENZA BAWA MAHA SAMAYA SATO AH

venerdì 29 ottobre 2010

I mantra - Parte II

L’etimologia tibetana del termine “mantra” è ‘protezione della mente’ : ossia, il mantra viene recitato per raggiungere il controllo della mente (proteggendola cioè dalle conseguenze disastrose dei pensieri incontrollati) e per trasformarla. Infatti i mantra aiutano a tenere la mente calma e in pace, concentrandola su un sol punto (una visione o un concetto), la rendono più ricettiva (aumentandone la percettività),purificano tutte le energie contaminate del corpo, della parola e della mente e fanno accumulare merito.
La funzione principale di un mantra è quella di evocare e far apparire la divinità nella meditazione ; nonchè quella di ricevere la sua benedizione e di realizzare i particolari poteri (siddhi) della deità stessa (karma-mantra).
Inoltre, un mantra serve per compiere le “4 azioni divine”, cioè le attività di pacificazione, sviluppo, dominio e distruzione. Di solito, lo si recita per generare un’attitudine mentale positiva o - come preghiera - per ottenere i favori della deità : così, il “mantra delle 100 sillabe” di Vajrasattva serve per rimuovere le predisposizioni negative create da cattive azioni, quello “delle 6 sillabe” di Avalokiteævara è indicato per
coltivare il sentimento d’amore e compassione, quello di Vajrayoginú per comprendere la vacuità. Infatti, il mantra ha una misteriosa corrispondenza ed affinità con le nostre varie potenzialità subconsce (ad es., l’energia della compassione), che vengono evocate e ridestate dalla recitazione del mantra relativo.
Con l’invocazione della deità mediante il mantra corrispondente, le forze e qualità divine - sopite nel nostro essere - ci manifestano la loro presenza e noi ne diventiamo coscienti. Ovviamente, i risultati dipenderanno dalla nostra fede nella divinità e dalla concentrazione della nostra recitazione. I mantra - come si è detto - sono composti da sillabe o parole, in lingua sanscrita ; quelli di una sola sillaba sono detti “búja-mantra” (‘mantra-seme”) : da essi, nella visualizzazione, sorge la figura della divinità. Spesso le sillabe che li compongono sono prive di significato etimologico : tale mancanza di significato non costituisce un illogico non-senso, ma esprime la natura di vacuità dei dharma,
cosicchè la meditazione sui mantra conduce il sadhaka (il praticante tantrico) a realizzare la natura di suñata dei dharma stessi. Altre volte il mantra è il nome della divinità : come noi ci assimiliamo al nostro nome e facciamo tutt’uno con esso, così il mantra è identico alla divinità, con la conseguenza che la sua recitazione ci trasmette la sua grazia e le qualità della sua mente.
I mantra vanno recitati 3, 7 o 108 volte (o multipli di tali cifre) a voce alta o mormorati o ripetuti solo mentalmente, aiutandosi col rosario (mala). Possono inoltre essere visualizzati in forma di lettere di luce in diversi punti del corpo (ad es., il cuore) - dove immaginiamo che stiano facendo il suono relativo (che noi ci limitiamo ad ascoltare) : e ciò al fine di convogliare in quei posti le sottili energie
praniche.
Nella triade “mudra, mantra e samadhi” nel processo di evocare una divinità, in primo luogo il mantra purifica la “parola” e l’energia del sadhaka ; poi il mantraseme (búja-mantra) rappresenta l’essenza fonica della deità, il mantra-radice (mulamantra) evoca le specifiche qualità ed attributi del temperamento, vibrazione ed energia della deità, e il karma-mantra compie le specifiche funzioni della deità stessa. Quando la “parola” è purificata, il mantra è la forma eufonica della divinità :il mantra è la deità stessa. Quando il sõdhaka ha identificato se stesso con la deità
attraverso il mantra, ogni sua parola è un mantra che infallibilmente riflette o descrive la realtà.
Tutti i mantra sono contenuti nelle 3 lettere OM AH HUM, che - prese insieme - costituiscono il mantra di tutti i buddha, il mantra che contiene la totalità della presenza illuminata. Tutti i buddha sono contenuti in 3 aspetti : corpo-vajra, parola-vajra e mente-vajra, o anche nirmanakaya, sambhogakaya e dharmakaya. Il mantra del corpo-vajra è OM, il mantra della parola-vajra è AH, il mantra della mente-vajra è HUM. Se recitiamo con fede queste 3 lettere, riceviamo le benedizioni di tutti i mantra e di tutti i buddha.


I mantra - Parte I

I mantra sono determinate formule fonetiche, cioè sonore, che si basano sulla fisica delle vibrazioni, nel senso che ad ogni oggetto ed elemento della natura e ad ogni essere è associato un particolare indice di vibrazione.
Suono è vibrazione, oscillazione, ritmo e quindi è una manifestazione del prana universale.
Il mantra dunque fa parte delle vibrazioni componenti l’universo e - in particolare - è anche il simbolo fonetico di un particolare piano (o livello) di coscienza.
Qui interessano i mantra che ci sono stati trasmessi oralmente da Buddha Sakyamuni, pervenendoci attraverso una linea ininterrotta di Maestri.
Si tratta di fonemi (formule sonore) sacri, rituali e mistici - composti di una o più sillabe o parole sanscrite - che rappresentano in modo fonetico la divinità a cui sono associati, cioè sono l’espressione - attraverso il suono - dell’essenza di una particolare divinità di meditazione, di cui racchiudono le qualità e i poteri.
L’assoluto si manifesta attraverso l’invisibile presenza del suono. Ogni divinità ha uno o più mantra specifici: questi sono delle invocazioni il cui significato è in relazione alla divinità stessa.
La recitazione ripetitiva (japa) del mantra (praticata da chi ha ricevuto le relative autorizzazioni od iniziazioni(1))- combinata con la meditazione (dhyana) - produce vibrazioni interiori provocate da tali suoni che hanno la capacità di mettere in azione e di attivare l’energia e l’influenza spirituale (byin-rlabs) corrispondente. In altre parole, il mantra risveglia nella nostra coscienza una comprensione intuitiva della verità inesprimibile a parole e ci apre la mente all’esperienza di dimensioni superiori : cioè induce all’intuizione estatica delle verità esoteriche esposte da quel particolare tantra e raffigurate visivamente nel mandala relativo. Da ciò si comprende come il mantra sia il principale supporto per la concentrazione.
Per capire come i mantra siano dotati di un infallibile potere d’azione basta pensare a come certi suoni hanno la capacità di agire sulla nostra mente. Ad es., quando diciamo “Sei una brava persona” o, all’opposto, “Sei un mascalzone”, le parole “brava” o “mascalzone” non sono delle ‘cose’, sono solo delle sonorità che non hanno in se stesse niente di “bravo” o di “mascalzone” : esse evocano tuttavia i pensieri corrispondenti e producono un effetto sulla mente di chi ci ascolta.


(1)Ma anche senza di queste la recitazione ha pur sempre un suo valore, perché il mantra è come una torcia accesa : non importa chi la tenga in mano, se viene accostata a un mucchio di paglia comunica il fuoco e scatena la sua energia. Ha cioè una certa validità in se stesso, dal punto di vista oggettivo

giovedì 21 ottobre 2010

Le preoccupazioni

Sono  che impediscono ai più grandi doni dell’esistenza di raggiungerti. Una mente preoccupata continua a proiettare la sua preoccupazione su qualsiasi cosa.
Quasi tutti sono preoccupati, anche solo per delle banalità. Se osservi attentamente queste preoccupazioni, ti metterai a ridere di te stesso, di che razza di sciocchezze si agitano dentro di te e creano tremendi ostacoli. E così ti basta guardare quali sono le tue preoccupazioni e lasciarle perdere.
È possibile svuotare la mente dalle tue preoccupazioni. Tu l’hai riempita, puoi anche svuotarla.
Cosa sono le nostre preoccupazioni? Cosa è che continuiamo a pensare e perché non la smettiamo di alimentare così tanto i nostri pensieri? Che cosa ha prodotto tutto questo nella lunga vita che hai vissuto fino a oggi? Non è forse una semplice perdita di tempo?
Devi osservare quali sono le preoccupazioni che ti ostacolano. Rimuovere quella barriera non è difficile; il solo osservare la sua futilità è sufficiente a farla scomparire.
Perciò, osserva e aspetta. Piano piano la trasformazione va così in profondità che per la mente diventa impossibile preoccuparsi.

sabato 16 ottobre 2010

Preghiera «in Sette Versi» a Padmasambhava

Hung
orgyèn yulgyi noub djang tsam
péma guésar dong po la
yatsèn tchogui ngoeu droub nyé
péma djoungnè ché sou drak
khortou khandro mang peu kor
khyékyi djésou dak droub kyi
djingyi lobtchir ché sou soeul
guru péma siddhi hung

Om ah hung benza guru péma siddhi hung