venerdì 31 dicembre 2010

Lo Yoga della divinità - Divinità e teismo

Il buddha-dharma è un approccio non-teista e le divinità non vanno intese in senso antropomorfico o come aventi una realtà individuale, una realtà che ne faccia un'entità «altra» esistente in sé.
Nell'essenza, la divinità non è altro che la mente stessa del meditante, l'aspetto puro di essa. Quando l'ego del meditante non è più là, senza «io» né «altro», appare l'unione divina; la sua realizzazione è libera da ogni individualità e da ogni dualità.
È la pienezza: non c'è niente che sia altro.
Stiamo attenti a non incappare in un certo numero di scogli e di deviazioni che si manifestano spesso: è importante distinguere bene la pratica di una divinità da un approccio teista nel senso comune del termine.
L'approccio teista è, comunemente, in stretto rapporto con l'antropomorfismo del quale si possono distinguere diversi livelli: grossolano, sottile ed essenziale.
L'antropomorfismo grossolano è quello di Dio, il vecchio nel suo paradiso al di sopra delle nuvole. Non ne parliamo perché ciò che questa concezione ha di semplicistico e di materialista è evidentissimo.
L'antropomorfismo sottile è più pernicioso. Non si attribuisce più a Dio una forma umana ma una mentalità umana e perfetta. Pur non essendo ad immagine fisica dell'uomo, ne ha i sentimenti, agisce, prende iniziative, ha delle intenzioni.
Detta la sua legge, giudica, castiga, ricompensa, ama, apprezza, disapprova. Ha tutte le caratteristiche della mente umana, ma prive delle loro imperfezioni abituali.
L'antropomorfismo essenziale consiste nel trasporre la modalità cognitiva umana e dualista alla divinità e nel fame qualcuno, una persona che esiste. Si tratta in effetti di attribuire a Dio un'identità che lo fa essere altro. L'antropomorfismo essenziale è l'esperienza dualista di Dio. Se si pone questa dualità come irriducibile, si assolutizza il relativo, il relazionale dualista e si resta prigionieri in esso.
Queste puntualizzazioni ci permetteranno di evitare le derive nella pratica, ma stiamo attenti dal considerarle come delle critiche rivolte ad una particolare tradizione. Ogni tradizione ha diversi livelli di comprensione. Si tratta perciò di una messa in guardia di fronte a certe comprensioni e deviazioni che sono state chiamate: «stato di mente (d'animo) teista».
Queste deviazioni sono a volte credenze popolari, altre volte possono costituire la quasi totalità delle prospettive di una tradizione;
quali che siano esse si incontrano in diversi gradi in tutte le tradizioni e sono in effetti la riduzione della divinità ad una prospettiva dualista e la sua reificazione in quella che si può definire una forma di materialismo spirituale.
A livello essenziale, le tradizioni teiste e non teiste possono ricongiungersi in un'unione trascendente, ma questa è sempre al di là dell'antropomorfismo e del suo materialismo spirituale.
La divinità nel Yajrauàna non è mai Dio, «il completamente altro». La natura della divinità è vacuità e la vacuità non è qualcosa che esiste. In questo senso la divinità è Dio se accettate che Dio non esiste! Cosa che un teista ordinario non ammetterebbe mai. Tuttavia la vacuità non è un'inesistenza, la sua assenza di dualità è il luogo di una presenza. Questa presenza è la Chiara Luce, la natura della divinità.
È importante fare attenzione a non scivolare nelle deviazioni della «mentalità teista» che provocano grossi ostacoli sulla via; l'impronta culturale occidentale, sia religiosa che laica, predispone a ciò. Il rischio è tanto maggiore quanto più delle somiglianze superficiali possono facilmente evocare, «dall'esterno», assimilazioni frettolose ed ingannevoli.
È una delle ragioni per cui delle buone basi nella comprensione del dharma sono importanti per affrontare il Vajrayana.
In particolare, solo nozioni ed esperienze di base della vacuità permettono di evitare gli scogli antropomorfici e permettono il giusto approccio alla pienezza divina della vacuità.
Nell'approccio del dharma noi siamo fin dall'inizio portatori della natura di buddha, di tutte le sue qualità, della sua realizzazione. Essa non è qualcosa che ci deve essere data, è in noi nel più profondo di noi stessi.
Essa non è affatto da costruire ma solo da scoprire; è una natura alla quale bisogna risvegliarci.
Praticando una divinità, non vi rivolgete ad un altro ma alla vostra natura risvegliata.
Essendo questa natura esterna al nostro ego, è giusto, dal suo punto di vista che è il nostro all'inizio, rappresentarcela come distinta da noi stessi. Eppure questa esteriorità è fittizia e sarà infine superata nel non-ego privo di dualità.
Secondo il dharma, l'aldilà esiste solo in rapporto all'aldiquà ed è capendo l'irrealtà dell'ego di qua che si afferra quella dell'aldilà, dell'Altro trascendente. In altri termini, Dio non esiste che in relazione all'ego che ne è il testimone e che lo pone come «Altro». Ma l'ego non esiste fondamentalmente e nemmeno Dio «Altro» esiste fondamentalmente.
L'aldilà divino non esiste che in rapporto all'aldiquà egoista.
Dal punto di vista del dharma, il livello relazionale è sempre relativo!
L'ultimo è l'assoluto non dualista e, perciò stesso, necessariamente non relazionale.
Si parla tuttavia di divinità nel Vajrauàna, ma essa è, nella sua natura profonda, la pienezza della vacuità aldilà di ogni nozione di «me» o di «altro», aldilà delle nozioni di «io» e di «voi».
Essa è sempre la «divinità di conoscenza primordiale»,ovvero quella che si pone al livello non dualista.

Lo Yoga della divinità - La natura della divinità

Peculiare al Vajrayana è lo sviluppo di una relazione personale con una divinità.
Nell'economia delle energie spirituali questa relazione è molto più dinamica ed efficace di una relazione impersonale.
La divinità è l'aspetto puro della mente: ciò che c'è di divino nel più profondo dell'animo di ciascuno di noi. Essa non è altro che la natura ultima della mente considerata nella sua pienezza
piuttosto che nel suo aspetto di vacuità. Il vuoto di illusioni ha per corollario la pienezza delle qualità risvegliate: è un «vuoto pieno» od una «pienezza di vacuità».
Nei Tantra questa pienezza riceve il nome di Chiara Luce della mente. L'essenza della divinità è questa Chiara Luce, la pienezza della mente pura liberata dai veli e dalle illusioni contingenti, essendo il suo aspetto manifestato attraverso la rappresentazione simbolica, all'inizio il solo accessibile alla nostra abituale mente concettuale.

giovedì 30 dicembre 2010

Lo Yoga della divinità - La divina approssimazione

Quando riceviamo un’iniziazione, il maestro-vajra ci dà una divinità (yi-dam) da visualizzare in accordo col nostro temperamento (intellettuale, passionale, ecc.). Ora, la “divina approssimazione” o “approccio preliminare”  è il periodo iniziale del devayoga, in quanto ci si familiarizza con quella determinata divinità avvicinandosi sempre più alla sua condizione.
Prima di meditare su un corpo divino, occorre stabilire attraverso il ragionamento la propria esistenza non-intrinseca ; poi questa stessa mente che ha come oggetto la propria Vacuità, si manifesta sotto forma di volto, di membra, ecc. della divinità (ad es., Vairocana). Questi due elementi (la saggezza che riconosce l’esistenza nonintrinseca e l’idea della divinità) sono un’unica entità : la mente che constata la Vacuità sotto forma di divinità ha come suo oggetto referente la Vacuità e come suo oggetto apparente e convenzionale un corpo divino. Con l’esercizio, gradualmente ci si abitua a questa manifestazione di una divinità priva di esistenza reale, simile ad un’illusione. La forma divina, come pure i suoni, ecc. si manifesteranno ancora, ma la nostra mente constaterà o coglierà esclusivamente la Vacuità.
Avvicinandosi sempre più alla condizione della divinità del devayoga, la divinità stessa elargisce allo yogi le siddhi - o direttamente o conferendo alla mente del praticante una determinata capacità.
Dopo il completamento dell’ “approssimazione divina” avviene la vera e propria acquisizione delle siddhi mediante il compimento delle pratiche prescritte (ripetizione di mantra, ecc.). Infine, tali siddhi vengono impiegate dal praticante per il bene altrui, cosicchè si ha un’ancor più grande accumulazione di meriti (che ci faranno raggiungere la buddhità più rapidamente che non col Veicolo
dei Sutra).


mercoledì 29 dicembre 2010

Lo Yoga della divinità - Introduzione

Lo “yoga della divinità” o “yoga di essenza divina” è la pratica fondamentale ed essenziale delle 4 classi del tantra : in tutti i tantra infatti è previsto il devayoga per la rapida accumulazione di meriti e saggezza discriminante. A partire da una buona comprensione della Vacuità e di bodhicitta, il praticante visualizza se stesso come una particolare divinità e vi si identifica, cancellando l’immagine di sè come essere ordinario e limitato. La pratica di questo yoga ha lo scopo specifico di ottenere il sambhogakaya di un buddha.
In questo yoga dunque, lo yogi medita su se stesso come se avesse un aspetto simile ad un corpo divino e al tempo stesso la sua mente riconosce la Vacuità : la coscienza della saggezza che comprende la Vacuità e si fonde con essa, appare in forma di divinità. In questa pratica, un singolo momento di coscienza conosce la forma di una divinità mentre contemporaneamente è consapevole della
sua natura di Vacuità : qui dunque meditazione sulla divinità e conoscenza della Vacuità coesistono in forma completa all’interno di un singolo momento cognitivo, cioè vi è la loro piena fusione all’interno di una singola entità di coscienza (che non è la semplice congiunzione di due distinti fattori che si completano l’un l’altro).
Sia il Paramitayana che il Vajrayana hanno un Sentiero per conseguire - con la meditazione sulla Vacuità - un Dharmakaya, ma solo il Vajrayana possiede un metodo speciale per ottenere un Rupakaya : questo metodo è il devayoga.
La saggezza che riconosce la Vacuità è la causa specifica del Dharmakaya e una causa concomitante del Rupakaya ; viceversa, il devayoga è la causa specifica del Rupakaya ma anche la causa concomitante del Dharmakaya.
Normalmente siamo insoddisfatti perchè abbiamo una visione ristretta, limitata e limitante della realtà e, in particolare, di ciò che siamo e di ciò che possiamo diventare : siamo intrappolati nell’insoddisfazione perché l’immagine che abbiamo di noi stessi è opprimente, inferiore e negativa. Il nostro potenziale umano, le nostre risorse interiori, vanno invece considerate in modo trascendentalmente bello, puro, forte, abile e vitale, cioè ci dobbiamo vedere come dèi e come dee. Per far ciò ci dobbiamo addestrare nello “yoga della divinità” : più ci abituiamo a dissolvere nello spazio vuoto le concezioni ordinarie che abbiamo di noi stessi e a visualizzarci nell’aspetto del glorioso corpo di luce del nostro yi-dam, e meno limitati ci sentiremo dalle frustrazioni e delusioni della normale e banale vita quotidiana. Se ci identifichiamo come dèi (ad es., Mañjusri) stimoleremo la nostra mente a risvegliare e sviluppare quelle qualità che essi rappresentano (ad es., la saggezza) e che sono latenti in noi (dato che abbiamo dentro di noi la “natura di buddha”) e
saremo in grado di aprirci alle forze positive esistenti dentro e fuori di noi. Le nostre ordinarie apparenze (ciò che vediamo, ascoltiamo, gustiamo, ecc.) verranno trasformate nel godimento pieno di beatitudine della divinità.
Dunque, il tantra è l’antidoto che cura l’immagine molto limitata che abbiamo di noi stessi, fondata sull’auto-commiserazione. Essa è il principale ostacolo alla crescita di amore e saggezza. La cura consiste in una catarsi generata da un processo di alchimia psichica : ci emaniamo visualizzandoci come una divinità (yi-dam), riconoscendo le nostre qualità positive. E’ questo lo “yoga della divinità”, in cui contempliamo l’orgoglio divino abbinato alla consapevolezza della Vacuità.
Il metodo del tantra è di eliminare gli stati mentali grossolani, superficiali, illusi e dualistici facendo in modo che si manifesti la mente (o coscienza) sottile, originaria e fondamentale (che risiede ed opera nell’inconscio) mediante tecniche come il gtum-mo o la meditazione sugli stadi di assorbimento del processo della morte. Al momento, questa mente sottile - che è fonte di chiarezza e di pace - è fuori uso, è come addormentata ; ma con quelle tecniche essa verrà attivata nell’avadhuti, cioè diverrà operativa.
L’identificazione del meditante col dio comporta la sua disidentificazione dagli aspetti parziali e dualistici del proprio essere. Percependo il proprio io come se fosse già quintessenziato dalla bellezza e dalla forza della divinità - anticipando perciò l’effetto alla causa - si giunge alla maturazione dello “Stadio di Generazione”.
In questo stadio il praticante prende progressiva famigliarità con la sua vita interiore, astenendosi però ancora dall’intervenire sul proprio “corpo sottile” - la cui trasmutazione darà per risultato (nello “Stadio di Perfezionamento”) la trasformazione della persona nella divinità.


lunedì 27 dicembre 2010

Om Mani Padme Hum - Cenresi Mantra

Per un attimo di meditazione:

The Six Syllable Mantra


mercoledì 22 dicembre 2010

Dedica

Guéwèi tsonam sagpa kunn
Dagui yongsou zoungmé par
Sèmtchèn malu kunnteun tou
Tcheuying lana mépar ngo


La Voie du Bouddha - Kalou Rinpoché

Préface de Sa Sainteté le Dalai-Lama
La Voie du Bouddha constitue à la fois une introduction générale au cheminement spirituel et un excellent manuel à l'usage des étudiants et des pratiquants du bouddhisme.
C'est un ouvrage de référence donnant une vue globale de la tradition yogique du bouddhisme tibétain et de sa pratique.
L'ouverture, la profondeur et la clarté des enseignements qu'il contient sont une source d'inspiration unique pour tous ceux qui sont à la recherche d'une spiritualité complète et vivante pouvant ètre pratiquée aujourd'hui.
Kyabjé Kalou Rinpoché
L'un des plus grands yogis tibétains et maitres contemporains.
Son rayonnement spirituel fut une source d'inspiration pour toutes les traditions.
Pendant la vingtaine d'années durant laquelle il enseigna en Occident, il manifesta au plus haut niveau la sagesse universelle et la compassion, qui sont l'essence des enseignements du Bouddha.
Denys Rinpoché
L'un des principaux héritiers spirituels de Kyabjé Kalou Rinpoché.
Il a dirigé la réalisation de cette anthologie et transmet depuis trente ans
son contenu, la voie de l'éveil.


Comprendere nell'esperienza - Lama Denys Rinpoce

Si tratta dunque di partire da dove siamo. Ciò è estremamente importante,perché molti approcci e pratiche del Dharma costruiscono delle sovrastrutture che non hanno molto a che vedere con ciò che si è, là dove si è.
Si vedono spesso praticanti abbandonarsi ad ogni sorta di considerazioni, di idee, mentre il rapporto tra tutto questo e l’istante, il loro vissuto presente, non sono evidenti. Il Dharma, allora, diventa una specie di imbellettamento: qualcosa di artificiale e superficiale; l’insegnamento non viene veramente vissuto, non entra nel cuore e non viene integrato.
È verso quest’integrazione che cerchiamo di andare progressivamente, considerandoci dei principianti. Io so che alcuni di voi hanno dieci anni o più di pratica del Dharma, ma poiché la mente-cuore fondamentale è quella del principiante, accettiamo di esserlo.
Il principio che prenderemo come filo conduttore è quello di congiungere comprensione ed esperienza. È per questo che il titolo scelto è «Comprendere nell’esperienza». Utilizzeremo inevitabilmente parole e concetti, cercando tuttavia di far corrispondere le nozioni introdotte ad un vissuto, perché ci sia ogni volta un legame tra una nozione, un concetto e l’esperienza.
Quando si usa una parola bisogna dunque che questa non sia soltanto un suono ma abbia per noi una tonalità, una sostanza vissuta. Allorché ad esempio parleremo di «apertura», saremo portati in vari modi a collegare la comprensione di questa parola ad un’esperienza, vale a dire a vivere il significato di ciò che è «aperto».
Per unire così comprensione ed esperienza, faremo certamente meditazione seduta, faremo śamatha-vipaśyana, ma utilizzeremo anche taluni particolari esercizi. Faremo ricorso ad esercizi derivati tanto dall’ambito tibetano che da quello occidentale.


Praticare la pace in tempo di guerra - Pema Chodron

Da sempre l'uomo desidera vivere in pace; eppure, paradossalmente, lo strumento attraverso cui cerca la pace e la felicità è la guerra. E questo è vero a livello quotidiano e familiare, nei rapporti tra comunità di diversa ampiezza e tra Stati. Ma sia la pace che la guerra hanno origine nello stesso luogo, nel cuore dell'uomo: è questo il fulcro del messaggio di Pema Chodron che in questo libro esplora le origini dell'odio, dell'aggressività, dei conflitti secondo l'insegnamento buddhista. E il modo in cui noi come individui reagiamo allo stress della vita quotidiana che può perpetuare una cultura di violenza, o viceversa creare una nuova cultura della compassione. Per questo imparare la meditazione e praticarla con costanza può aiutarci a diventare persone più consapevoli e compassionevoli, aprendo, nel nostro piccolo, le porte a un mondo di pace.


lunedì 13 dicembre 2010

Il mito della libertà e la Via della Meditazione - Chogyam Trungpa

La libertà è concepita in genere come la capacità di realizzare i propri scopi e soddisfare i propri desideri. Ma qual è la fonte di questi scopi e desideri? Se nascono dall'ignoranza, dai modelli abitudinari e dalle emozioni negative - in altre parole, da elementi psicologicamente distruttivi che in realtà ci tengono schiavi -la libertà di ricercarli è allora vera libertà non è forse soltanto un mito?
Nei capitoli di questo libro, basato sulle conversazioni tenute da Chògyam Trungpa, l'idea della libertà è inserita nel profondo contesto del Buddhismo tibetano. Scavalcando il divario fra la tradizione esoterica orientale e le realtà quotidiane della vita occidentale, l'undicesima incarnazione del Trungpa Tulku ci insegna che i nostri atteggiamenti, i nostri preconcetti, e persino le nostre stesse pratiche spirituali possono trasformarsi in catene che ci avvincono a modelli ripetitivi di frustrazione e disperazione. Trungpa spiega inoltre il ruolo significativo svolto dalla meditazione nel mettere a fuoco le cause della frustrazione e nel far sì che queste forze distruttive divengano degli aiuti nel progresso verso la vera libertà.
L'abilità unica di Trungpa nell' esprimere l'essenza degli insegnamenti nel linguaggio e nelle immagini della cultura occidentale contemporanea fa di questo libro una delle fonti più dirette per attingere al significato immediato della dottrina buddhista. C'è in questo approccio un amalgama di piacevole umorismo e di profondissima serietà, che implica una visione della vita nella sua completezza e senza la macchia di idee preconcette.
Il libro quindi ci esorta e ci sfida a dare una nuova valutazione del nostro concetto di libertà, a riesaminare i nostri pensieri e le nostre attività e ad avviarci lungo un sentiero che conduce alla liberazione perfino dalla nozione stessa di libertà come è comunemente intesa.

venerdì 10 dicembre 2010

Sei sicuro di non essere buddhista? - Khyentse Norbu

Una coerente scelta buddhista è possibile. Anche dentro la quotidianità occidentale. È così possibile, ci fa intendere l’autore, che ci si può scoprire buddhisti prima di fare (o senza fare) esplicita professione di fede.

Un piccolo trattato che cerca di spiegare le ragioni e i fondamenti del buddhismo. Il Maestro parte dai cosiddetti quattro sigilli (tutti i fenomeni compositi sono impermanenti, tutte le emozioni sono dolore, tutte le cose sono prive di esistenza intrinseca e l'illuminaziuone -il nirvana- trascende ogni concetto), e invita a riflettere sul fatto che non è necessaria né sufficiente una tunica arancione e un'ossessione repulsiva nei confronti della carne per essere buddhisti.
Primo libro di un lama appartenente a una gloriosa famiglia del Bhutan e che oltre a insegnare buddhismo è anche un appassionato viaggiatore e regista di una certa fama, questo volume tirerà fuori la parte buddista che è in voi, se c'è.
Facendo riferimenti al Viagra o a ad Eminem e ricordandoci che anche Hitler era vegetariano, tra aneddoti, appunti di viaggio e riferimenti a vari elementi della nostra cultura, Khyentse Norbu fornisce le prime basi per aiutare chi legge ad avvicinarsi all'unica religione che ha l'onore di essere sempre stata lontana dal degrado del fondamentalismo e della violenza.
Khyentse Norbu sostiene che non serve una tunica arancio e né quel certo un sorriso radioso per scoprirsi vicini al pensiero buddista. Così, con una serie di esempi pratici e una buona dose di ironia e di leggerezza, l'autore presenta il buddismo da un punto di vista sociale, di costume, senza addentrarsi nei meandri più profondi delle sue regole e della sua filosofia, senza neppure accennare alla meditazione, alle pratiche, alle dissertazioni sulla reincarnazione.
Lo scopo, perfettamente riuscito, è quello di dare un assaggio sufficiente a far comprendere al lettore occidentale se ci sono i cosiddetti prerequisiti per approfondire la religione buddista.
L'autore ha devoluto i proventi del libro ad un'associazione no profit che sostiene la pratica e lo studio "della concezione del Buddha, della saggezza e della compassione".
Un libro consigliato a tutti.



giovedì 9 dicembre 2010

Il ruggito del leone - Chogyam Trungpa

I due seminari che formano il materiale di questo volume vennero tenuti negli anni '70, quando il venerabile Chògyam Trungpa introdusse per la prima volta gli insegnamenti tantrici ai suoi studenti occidentali. Il loro titolo "I nove yàna", o nove veicoli, indica come Trungpa abbia voluto delineare un quadro completo del viaggio spirituale, trasmettendo la totalità degli insegnamenti e delle istruzioni pratiche che consentono allo studente di progredire spiritualmente sul sentiero buddhista. La proclamazione della verità è impavida, dice il buddhismo tantrico tibetano, e come un possente Icone del Dharma Trungpa, pur mantenendo inalterata l'essenza della tradizione, non si barrica dietro fredde esposizioni dottrinali, ma parla muovendo da una comprensione intuitiva delle cose. Le sue parole, fresche e immediate, hanno il sapore dell'esperienza personale e la forza dirompente della verità. Nei suoi discorsi è come se il tantra uscisse dai manuali dotti e dalle buie vetrine dei musei per sconvolgere con l'impatto della pazza saggezza il perbenismo e il cieco autocompiacimento del 'bravo' meditante.
Il ruggito del leone è la proclamazione impavida che tutto ciò che sorge nella mente samsarica, incluso il caos delle emozioni negative, non è un ostacolo alla calma meditativa ma un'occasione unica per imparare, una situazione ricca di una enorme energia capace di accelerare il cammino verso l'illuminazione.


Il libro tibetano dei morti - Detlef-I. Lauf

Dottrine segrete e mondi trascendenti.

Questo non è un libro per animi pavidi. Chi lo ha letto e forse si è smarrito in esso si ritrova cambiato, o comunque scosso. E` stato esposto alle possenti onde della coscienza ed è stato profondamente agitato da esse. La stabilità del suo Io vacilla e la linea di demarcazione fra soggetto ed oggetto si cancella.
     L'abissale profondità del pensiero tibetano ha già turbato l'ultima generazione in Occidente; l'hanno turbata in particolare le strane visioni di A. David-Neel e la traduzione di W. Y. Evans Wentz di buona parte dei libri tibetani dei morti, molti dei quali incontreremo in questo volume. Poiché nessuno era in grado di controllarle, molte delle cosiddette ricerche tibetane erano ormai diventate un biglietto gratuito per le proiezioni della propria fantasia.
     L'importanza di questo libro è dovuta soprattutto al fatto che esso è un lavoro serio ed approfondito sotto il profilo scientifico (profondità che manca spesso ai rappresentati del mondo accademico); e risulta inoltre più coinvolgente delle considerazioni pseudo-occultistiche e talora fantasiose che spesso vengono spacciate sotto il nome di "Tibet".
     Al contrario di molti trattati popolari benché opinabili dal punto di vista scientifico (vedi "Shangri-La"), questo libro non sembra interessante, originale o esotico al primo impatto. Tuttavia, mano a mano che lo si legge, si ha sempre più l'impressione di venir introdotti a una visione della realtà che ci informa non solo sul Tibet ma anche su noi stessi, su aspetti sconosciuti del nostro Io, che ad un tratto non ci appare più tanto solido e sicuro.
     Questo libro ci insegna soprattutto che quella che abitualmente noi chiamiamo "realtà"  non è che una delle tante possibili realtà e non certo la più importante. Ognuno di noi possiede infatti il proprio mandala.
     Non è difficile trarre profitto da quest'opera, nonostante che il testo dei libri dei morti risulti astruso, perché Lauf, grazie alle sue enormi conoscenze e alle sue profonde meditazioni, ha fatto per noi gran parte del lavoro. Ecco un esempio di come un mondo tanto lontano dal nostro può venir aperto al punto da permetterci di capire valori del tutto nuovi.
     Data la ricchezza contenutistica del materiale, Lauf evita di condurre il lettore non-iniziato attraverso l'intricato labirinto dei dettagli. E` un vero sollievo constatare che l'occhio dell'autore è sempre diretto all'essenziale.
     Il prefattore, che ha pure discusso questi temi non moltissimi tibetologici, non ha mai incontrato un approccio ai testi tibetani altrettanto essenzializzato ed altrettanta capacità di coglierne il significato rapidamente e fino in fondo.
     Di conseguenza, la morte, di cui essi principalmente trattano, ci appare in una luce completamente diversa; anzi possiamo dire che ci appare completamente illuminata nel vero senso del termine; per cui la nostra attuale interpretazione medico-ateistico-nichilista della morte viene non solo messa in discussione ma addirittura demolita.
     Lauf ci fa capire come i Libri tibetani dei morti rappresentino un'opera di inestimabile valore. In essi tutto è sviluppato in modo magistrale, per cui il lettore acquista realmente una visione nuova delle cose. Sono testi di grande coerenza che insegnano cosa è la morte ma anche cosa è la vita.
     La presente opera, che inizia sviluppando soprattutto il lato metodico, offre poi un'entusiasmante descrizione di stati di coscienza di solito ignorati. Illustra ad esempio con grande vivezza l'esperienza postmortale dell'infinito. Lo spirito risulta essere l'essenza del vuoto dello spazio celeste, un vuoto dietro il quale si intravvede il "positivo".
     L'interessantissimo capitolo sulla psiche e la coscienza evidenzia l'universalità di molti concetti dei libri tibetani dei morti. I confronti con analoghi scritti di altre culture facilitano la comprensione di molte concezioni e vi si ravvisa l'analogia fra i modi di concepire la morte. Lauf formula assiomi di una fenomenologia comparata della psiche che nessuno aveva ancora mai formulato.
     Emergono idee dell'umanità antichissime. Troviamo sorprendenti paralleli nell'Occidente cristiano, per esempio nel concetto di "capacità di operare sull'anima dopo la morte" di Tommaso d'Aquino, che corrisponde in forte misura al "karma" indiano.
     Dato che i Libri tibetani dei morti sono strutturati su simboli archetipici, l'autore non trova naturalmente difficoltà a mettere in rapporto molti di questi simboli col materiale ereditario filogenetico di Freud e con gli archetipi di Jung. Anzi, a suo avviso le attuali teorie psicologiche trovano conferma in molte esperienze segnalate in Tibet, che trapelano spesso nell'umana esistenza come realtà intuita. Per il Lauf l'intera storia dello spirito è una prova del fatto che anima e coscienza sono molto di più della mera e transitoria corporeità.
     Particolarmente interessante è infine la sua constatazione che, siccome il mondo altro non è che coscienza (nell'altro del resto sarebbe accessibile a noi), esiste anche una coscienza di base, un magazzino di tutte le impressioni, una sorta di oceano che, agitato dal karma, lascia emergere sempre nuove impressioni. Avviene una contrazione, una riduzione al puro inconscio, in un'altra dimensione, prima che dalla potenza primordiale possa sorgere una nuova coscienza? Lauf giustamente non si addentra in speculazioni del genere perché potrebbero portare alla formazione di idee invece che di realtà. In ogni caso, già le teorie di un'esistenza trascendente, sono di per sé realtà psichica anche se la ragione tende a respingerle. La costruzione di mondi trascendenti è già una realtà di cui val la pena occuparsi.
     Concludendo si può dire che il contrasto fra morte e vita viene qui relativizzato come raramente è stato fatto in Occidente; lo hanno fatto solo grandi mistici, quale era per esempio Rilke, che ci dice che spesso gli angeli non sanno se si trovano tra i vivi o tra i morti.
     Ora, cosa succederebbe se quest'opera di Lauf venisse tradotta in tibetano? Che effetto farebbe sul piccolo gruppo degli stessi Tibetani, oggi purtroppo in via di estinzione? Per essa è prevedibile lo stesso successo che Daisetz T. Suzuki si riprometteva da una traduzione in giapponese della sua opera inglese sul buddhismo zen: gli irriducibili bonzi, sarebbero stati costretti a rivedere e a ripensare tutta la loro tradizione, a trasformare tutto il loro mero sapere in una viva visione della realtà del mondo.
     Oggi il Tibet, a causa del materialismo impostogli dalla Cina, che sta rinnegando anche il proprio passato e quindi anche i propri archetipi, o dall'India, ugualmente Occidentalizzata, si sta lentamente dissolvendo, sia come realtà geografica che come realtà antropologica.
     Tuttavia questo Tibet continua a vivere in noi, rimane in noi, inestirpabile, come una grande aspirazione all'eterno mistero, in un'epoca, povera come la nostra, segnata dall'assoluta mancanza di misteri e dalla smitizzazione. Lauf ci indica una via di redenzione che salva ciò che è essenziale e che non può essere perso. Il Tibet,  lo vediamo, sta entrando nel bar-do; noi però sappiamo che questo è solo uno stato transitorio e che nulla di ciò che è essenziale e vero va mai veramente perduto.



mercoledì 1 dicembre 2010

Al di là del materialismo spirituale di Chögyam Trungpa

Recensione
“Percorrere rettamente il sentiero spirituale è un processo molto sottile… Ci sono numerose deviazioni che portano a una versione distorta, egocentrica, della spiritualità; possiamo cadere nell’inganno di credere che ci stiamo sviluppando spiritualmente, mentre invece stiamo rafforzando la nostra egocentricità mediante tecniche spirituali. A questa fondamentale distorsione si farà riferimento col nome di materialismo spirituale”.
Con queste parole Chögyam Trungpa apre un libro profondo e oltremodo “scomodo”, che ha segnato una vera e propria svolta nella diffusione del buddhismo in Occidente, non solo trasformandone la sapienza millenaria in un insegnamento vivo e radicato nella vita quotidiana di ciascuno di noi, ma anche mettendo a nudo i fraintendimenti e i rischi cui l'individuo si può esporre nel "piegare" questo sentiero, anche inconsciamente, al fine di consolidare il proprio Io.

Basterà leggere la bellissima introduzione per rendersi conto di quali fraintendimenti e rischi si stia parlando. Qui, Chögyam Trungpa fa riferimento alla metafora del "Signore della Forma", del "Signore della Parola" e del "Signore della Mente", impiegata nel buddhismo tibetano per descrivere il funzionamento dell'Io.

Il Signore della Forma si riferisce alla nostra spasmodica ricerca di sicurezza, di agio e di piacere fisico, finalizzata a "proteggerci dai fastidi degli aspetti grezzi, scabri, imprevedibili della vita". Il Signore della Parola si riferisce all'uso dell'intelletto per interpretare, "incasellare" e quindi controllare il mondo che ci circonda, utilizzando i concetti come filtri "per schermarci da una percezione diretta di ciò che è"; "il prodotto più pienamente sviluppato di questa tendenza sono le ideologie, i sistemi di idee che razionalizzano, giustificano e santificano la nostra vita". Il Signore della Mente, infine, "domina quando usiamo discipline spirituali e psicologiche come mezzi per conservare la nostra autocoscienza, aggrapparci al nostro senso del sé. L'Io ha il potere di piegare tutto, perfino la spiritualità, a suo vantaggio".

I tre Signori non si limitano a dominare il nostro modo di vivere e di vedere l'esistenza quotidiana; essi si insinuano nel sentiero spirituale, nella pratica meditativa, nel rapporto con il maestro. "I Signori usano il pensiero discorsivo come la loro prima linea di difesa. Più generiamo pensieri, più siamo affacendati mentalmente e più siamo convinti della nostra esistenza. Così i Signori cercano di crearne una costante sovrapposizione, in modo che non si possa vedere nulla oltre i loro strati. Se si capisce la strategia del creare continuamente pensieri sovrapposti, allora i Signori suscitano le emozioni per distrarci. L'eccitante, colorita, drammatica qualità delle emozioni cattura la nostra attenzione, quasi stessimo assistendo a un film quanto mai emozionante. In assenza di pensieri ed emozioni i Signori sfoderano un'arma ancora più potente, i concetti. Classificare i fenomeni crea il senso di un solido, definito mondo di 'cose'. Questo solido mondo ci rassicura che anche noi siamo una cosa solida, continua. Il mondo esiste, dunque io, che percepisco il mondo, esisto".

Ma la rivoluzione del Buddha non è consistita tanto nel sopprimere i pensieri, le emozioni, i concetti e le altre attività della mente, quanto nel conoscerli per ciò che essi sono, nel "lavorare con la loro struttura" e quindi trasformarli da espressione di un'ambizione egoica nell'espressione di una mente risvegliata. In questo straordinario cammino verso una libertà che è assenza di sforzo (lo sforzo di provare la nostra esistenza, di affermare la nostra visione egocentrica del mondo), noi occidentali dovremo guardarci dalla tentazione di voler accumulare una preziosa ma sterile "collezione di sentieri spirituali". "Forse abbiamo studiato la filosofia occidentale o quella orientale, abbiamo praticato lo yoga o studiato sotto una quantità di grandi maestri. Crediamo di aver accumulato un bel po' di conoscenza. Eppure, dopo tanta strada, c'è ancora qualcosa cui rinunciare. Le nostre immense collezioni di conoscenza ed esperienza fanno parte della grande vetrina dell'Io; non abbiamo fatto che creare un negozio di antiquariato".