venerdì 31 dicembre 2010

Lo Yoga della divinità - Divinità e teismo

Il buddha-dharma è un approccio non-teista e le divinità non vanno intese in senso antropomorfico o come aventi una realtà individuale, una realtà che ne faccia un'entità «altra» esistente in sé.
Nell'essenza, la divinità non è altro che la mente stessa del meditante, l'aspetto puro di essa. Quando l'ego del meditante non è più là, senza «io» né «altro», appare l'unione divina; la sua realizzazione è libera da ogni individualità e da ogni dualità.
È la pienezza: non c'è niente che sia altro.
Stiamo attenti a non incappare in un certo numero di scogli e di deviazioni che si manifestano spesso: è importante distinguere bene la pratica di una divinità da un approccio teista nel senso comune del termine.
L'approccio teista è, comunemente, in stretto rapporto con l'antropomorfismo del quale si possono distinguere diversi livelli: grossolano, sottile ed essenziale.
L'antropomorfismo grossolano è quello di Dio, il vecchio nel suo paradiso al di sopra delle nuvole. Non ne parliamo perché ciò che questa concezione ha di semplicistico e di materialista è evidentissimo.
L'antropomorfismo sottile è più pernicioso. Non si attribuisce più a Dio una forma umana ma una mentalità umana e perfetta. Pur non essendo ad immagine fisica dell'uomo, ne ha i sentimenti, agisce, prende iniziative, ha delle intenzioni.
Detta la sua legge, giudica, castiga, ricompensa, ama, apprezza, disapprova. Ha tutte le caratteristiche della mente umana, ma prive delle loro imperfezioni abituali.
L'antropomorfismo essenziale consiste nel trasporre la modalità cognitiva umana e dualista alla divinità e nel fame qualcuno, una persona che esiste. Si tratta in effetti di attribuire a Dio un'identità che lo fa essere altro. L'antropomorfismo essenziale è l'esperienza dualista di Dio. Se si pone questa dualità come irriducibile, si assolutizza il relativo, il relazionale dualista e si resta prigionieri in esso.
Queste puntualizzazioni ci permetteranno di evitare le derive nella pratica, ma stiamo attenti dal considerarle come delle critiche rivolte ad una particolare tradizione. Ogni tradizione ha diversi livelli di comprensione. Si tratta perciò di una messa in guardia di fronte a certe comprensioni e deviazioni che sono state chiamate: «stato di mente (d'animo) teista».
Queste deviazioni sono a volte credenze popolari, altre volte possono costituire la quasi totalità delle prospettive di una tradizione;
quali che siano esse si incontrano in diversi gradi in tutte le tradizioni e sono in effetti la riduzione della divinità ad una prospettiva dualista e la sua reificazione in quella che si può definire una forma di materialismo spirituale.
A livello essenziale, le tradizioni teiste e non teiste possono ricongiungersi in un'unione trascendente, ma questa è sempre al di là dell'antropomorfismo e del suo materialismo spirituale.
La divinità nel Yajrauàna non è mai Dio, «il completamente altro». La natura della divinità è vacuità e la vacuità non è qualcosa che esiste. In questo senso la divinità è Dio se accettate che Dio non esiste! Cosa che un teista ordinario non ammetterebbe mai. Tuttavia la vacuità non è un'inesistenza, la sua assenza di dualità è il luogo di una presenza. Questa presenza è la Chiara Luce, la natura della divinità.
È importante fare attenzione a non scivolare nelle deviazioni della «mentalità teista» che provocano grossi ostacoli sulla via; l'impronta culturale occidentale, sia religiosa che laica, predispone a ciò. Il rischio è tanto maggiore quanto più delle somiglianze superficiali possono facilmente evocare, «dall'esterno», assimilazioni frettolose ed ingannevoli.
È una delle ragioni per cui delle buone basi nella comprensione del dharma sono importanti per affrontare il Vajrayana.
In particolare, solo nozioni ed esperienze di base della vacuità permettono di evitare gli scogli antropomorfici e permettono il giusto approccio alla pienezza divina della vacuità.
Nell'approccio del dharma noi siamo fin dall'inizio portatori della natura di buddha, di tutte le sue qualità, della sua realizzazione. Essa non è qualcosa che ci deve essere data, è in noi nel più profondo di noi stessi.
Essa non è affatto da costruire ma solo da scoprire; è una natura alla quale bisogna risvegliarci.
Praticando una divinità, non vi rivolgete ad un altro ma alla vostra natura risvegliata.
Essendo questa natura esterna al nostro ego, è giusto, dal suo punto di vista che è il nostro all'inizio, rappresentarcela come distinta da noi stessi. Eppure questa esteriorità è fittizia e sarà infine superata nel non-ego privo di dualità.
Secondo il dharma, l'aldilà esiste solo in rapporto all'aldiquà ed è capendo l'irrealtà dell'ego di qua che si afferra quella dell'aldilà, dell'Altro trascendente. In altri termini, Dio non esiste che in relazione all'ego che ne è il testimone e che lo pone come «Altro». Ma l'ego non esiste fondamentalmente e nemmeno Dio «Altro» esiste fondamentalmente.
L'aldilà divino non esiste che in rapporto all'aldiquà egoista.
Dal punto di vista del dharma, il livello relazionale è sempre relativo!
L'ultimo è l'assoluto non dualista e, perciò stesso, necessariamente non relazionale.
Si parla tuttavia di divinità nel Vajrauàna, ma essa è, nella sua natura profonda, la pienezza della vacuità aldilà di ogni nozione di «me» o di «altro», aldilà delle nozioni di «io» e di «voi».
Essa è sempre la «divinità di conoscenza primordiale»,ovvero quella che si pone al livello non dualista.

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