mercoledì 29 dicembre 2010

Lo Yoga della divinità - Introduzione

Lo “yoga della divinità” o “yoga di essenza divina” è la pratica fondamentale ed essenziale delle 4 classi del tantra : in tutti i tantra infatti è previsto il devayoga per la rapida accumulazione di meriti e saggezza discriminante. A partire da una buona comprensione della Vacuità e di bodhicitta, il praticante visualizza se stesso come una particolare divinità e vi si identifica, cancellando l’immagine di sè come essere ordinario e limitato. La pratica di questo yoga ha lo scopo specifico di ottenere il sambhogakaya di un buddha.
In questo yoga dunque, lo yogi medita su se stesso come se avesse un aspetto simile ad un corpo divino e al tempo stesso la sua mente riconosce la Vacuità : la coscienza della saggezza che comprende la Vacuità e si fonde con essa, appare in forma di divinità. In questa pratica, un singolo momento di coscienza conosce la forma di una divinità mentre contemporaneamente è consapevole della
sua natura di Vacuità : qui dunque meditazione sulla divinità e conoscenza della Vacuità coesistono in forma completa all’interno di un singolo momento cognitivo, cioè vi è la loro piena fusione all’interno di una singola entità di coscienza (che non è la semplice congiunzione di due distinti fattori che si completano l’un l’altro).
Sia il Paramitayana che il Vajrayana hanno un Sentiero per conseguire - con la meditazione sulla Vacuità - un Dharmakaya, ma solo il Vajrayana possiede un metodo speciale per ottenere un Rupakaya : questo metodo è il devayoga.
La saggezza che riconosce la Vacuità è la causa specifica del Dharmakaya e una causa concomitante del Rupakaya ; viceversa, il devayoga è la causa specifica del Rupakaya ma anche la causa concomitante del Dharmakaya.
Normalmente siamo insoddisfatti perchè abbiamo una visione ristretta, limitata e limitante della realtà e, in particolare, di ciò che siamo e di ciò che possiamo diventare : siamo intrappolati nell’insoddisfazione perché l’immagine che abbiamo di noi stessi è opprimente, inferiore e negativa. Il nostro potenziale umano, le nostre risorse interiori, vanno invece considerate in modo trascendentalmente bello, puro, forte, abile e vitale, cioè ci dobbiamo vedere come dèi e come dee. Per far ciò ci dobbiamo addestrare nello “yoga della divinità” : più ci abituiamo a dissolvere nello spazio vuoto le concezioni ordinarie che abbiamo di noi stessi e a visualizzarci nell’aspetto del glorioso corpo di luce del nostro yi-dam, e meno limitati ci sentiremo dalle frustrazioni e delusioni della normale e banale vita quotidiana. Se ci identifichiamo come dèi (ad es., Mañjusri) stimoleremo la nostra mente a risvegliare e sviluppare quelle qualità che essi rappresentano (ad es., la saggezza) e che sono latenti in noi (dato che abbiamo dentro di noi la “natura di buddha”) e
saremo in grado di aprirci alle forze positive esistenti dentro e fuori di noi. Le nostre ordinarie apparenze (ciò che vediamo, ascoltiamo, gustiamo, ecc.) verranno trasformate nel godimento pieno di beatitudine della divinità.
Dunque, il tantra è l’antidoto che cura l’immagine molto limitata che abbiamo di noi stessi, fondata sull’auto-commiserazione. Essa è il principale ostacolo alla crescita di amore e saggezza. La cura consiste in una catarsi generata da un processo di alchimia psichica : ci emaniamo visualizzandoci come una divinità (yi-dam), riconoscendo le nostre qualità positive. E’ questo lo “yoga della divinità”, in cui contempliamo l’orgoglio divino abbinato alla consapevolezza della Vacuità.
Il metodo del tantra è di eliminare gli stati mentali grossolani, superficiali, illusi e dualistici facendo in modo che si manifesti la mente (o coscienza) sottile, originaria e fondamentale (che risiede ed opera nell’inconscio) mediante tecniche come il gtum-mo o la meditazione sugli stadi di assorbimento del processo della morte. Al momento, questa mente sottile - che è fonte di chiarezza e di pace - è fuori uso, è come addormentata ; ma con quelle tecniche essa verrà attivata nell’avadhuti, cioè diverrà operativa.
L’identificazione del meditante col dio comporta la sua disidentificazione dagli aspetti parziali e dualistici del proprio essere. Percependo il proprio io come se fosse già quintessenziato dalla bellezza e dalla forza della divinità - anticipando perciò l’effetto alla causa - si giunge alla maturazione dello “Stadio di Generazione”.
In questo stadio il praticante prende progressiva famigliarità con la sua vita interiore, astenendosi però ancora dall’intervenire sul proprio “corpo sottile” - la cui trasmutazione darà per risultato (nello “Stadio di Perfezionamento”) la trasformazione della persona nella divinità.


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